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suoi tempi: le Donne de casa soa non sono già uno Specchio di virtù o il Giardino della famiglia. Il Goldoni non si cura nemmeno di sapere quali dovrebbero essere, ma bensì cerca di renderle quali a lui appariscono. Il commediografo con la sua meravigliosa percezione della vita reale, accanto al quadro delle lavandaie (i Pettegolezzi delle donne) e delle massere, amò collocare quello della borghesia più bassa a Venezia, nelle Donne gelose e nelle Donne de casa soa. Egli guarda dunque nella casa d’un sanser de Rialto, d’un sensale poco fortunato, perchè «pien de scrupoli» e, come dice la moglie, un tantino «alocco»: e vede il bene e anche il male, le virtù domestiche e anche i difetti, e quello che vede ritrae fedelmente, umoristicamente.
Guardiamo noi pure, e lasciamo in pace il titolo, ch’è tuttavia pittoresco, come amava il Goldoni; e che seanche non fosse appropriato, sarà ripetuto e piacerà per molti secoli ancora, finchè risuonerà un accento del dialetto veneziano. Del resto sior’Anzola e siora Betta si mostrano fin da bel principio due ottime donne de casa soa, lontane da ogni spasso in quella Venezia del Settecento che ci vien descritta come un bordello e un carnovale perpetuo, sempre ritirate, solo occupate negli affari domestici, laboriose e frugali all’eccesso, attente a sorvegliare l’opera della servitù e, se occorre, quella dei mariti. È gente povera, ma fa piacere a entrar in casa: «A mi me sta sul cuor la cusina e quei secchi, - E i peltri, e i candelieri, che i luse co fa specchi. - Certo ghe xe per tutto una gran pulizia» (III, 1) Questo a furia di economia, con sacrifìcio e destrezza. Esse sanno come si può risparmiare sia nella tela, sia nell’olio; mettono da banda, per vivere onestamente, fino «i scorzi de vovo» i gusci delle uova; vogliono esse allevare i propri figliuoli e «tenderghe alle so putte» e si sdegnano, anche senza aver letto Rousseau, contro quelle «sporche» che per paura «de vegnir vecchie presto» non danno il latte alle loro creature, ma le abbandonano a qualche balia (così anche l’avv. G. A. Costantini in una delle Lettere critiche, intitolata La Balia, t. VII, Ven., 1731. - V. Cesare Musatti, Q. e l’allattamento moderno, nella Strenna pel 1907, Ven., Educatorio Rachitici). Se poi c’è in casa una ragazza da marito che non abbia dote, conoscono bene la via di combinare, a contraggenio o no, un bel matrimonio. - Virtù grette quanto si vuole, ma virtù del popolino; e il Baffo ha torto di chiamare sior’Anzola e siora Betta con certi nomacci da trivio, perchè comandano al marito, o perchè hanno il compare accanto, l’amico, spesso innocuo, di casa. Qualche cosa bisogna concedere a queste donne: non è già per colpa di esse che, se Venezia deve cadere, si perderà la patria e la società. Anzi dovrebbero gli stessi storici tenerne di conto più che non abbiano fatto sinora (Falchi, l. c., p. 84).
La chiacchiera di Anzola e di Betta risorge dalla commedia riempiendo l’umile abitazione di un angolo dell’antica Venezia, ed ogni frase è una pittura dell’anima dei due personaggi e un’eco suggestiva del tempo lontano (vedasi il cit. libro della Toselli, pp. 50, 85, 88). E quando al coro si unisce la vecchia Laura, un’altra massera, o Bastiana la revendigola, perdiamo anche noi la testa come Tonino: «No so dove che sia; le ha tanto chiaccolà, Le ghe n’ha dito tante, che son mezzo incantà» (III, 8). Solo la grande arte sa dare simili illusioni. E noi vediamo coi nostri occhi il buon Benetto coi ferri di calza in mano e Anzola mentre aiuta il marito a togliersi il tabarro e la velada;