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meglio scriveva il Goldoni fin dall’aprile al conte Arconati-Visconti di avere steso i Malcontenti in prosa «poichè dell’incantesimo dei versi il popolo si va annoiando, e la prosa è quella che nelle commedie di costume nostro dee prevalere» (Spinelli, Fogli sparsi del G., Milano, 1885, pp. 34-5). L’autore dunque erasi lusingato che la commedia dovesse trionfare: e della delusione resta vivissimo il ricordo nella prefazione che dettò dopo tre anni. Egli si ostinò a farla recitare più volte, non si arrese al giudizio del pubblico, e soltanto nelle Memorie, benchè ne vantasse i pregi, concluse di non volerne dare il sunto «de crainte qu’on ne dise que c’est une capucinade» (Mémoires, II, ch. 33). Senza dubbio il Goldoni aveva voluto accontentare i più accaniti difensori della morale che schiamazzavano per le Messere, fra i quali era forse S. E. Giorgio Baffo: ma la Buona famiglia non piacque ai contemporanei e ai posteri perchè nel dipingere il quadro delle virtù familiari al Goldoni fece difetto l’arte, e invece di persone vive gli uscirono dalla penna dei fantocci. A torto nella famiglia esemplare vide quasi il riflesso della nobile casa Vendramin (v. capitolo per la monacazione della N. D. Chiara, 1760). La bontà, l’onestà, l’affetto, la docilità sono cose bellissime anche nell’arte, purchè non si confondano con la scimunitaggine. L’ingenuo Dottor veneziano ha potuto creare Mirandolina, e non ha saputo soffiare un alito nel cuore della signora Costanza; il tenero marito che passava a guado i torrenti di Romagna recandosi sulle spalle la dolce Nicoletta, ha potuto creare don Marzio e non ha saputo far parlare Fabrizio; papà Goldoni che noi immaginiamo anche troppo sorridente nel perpetuo carnovale dell’esistenza, mentre la patria e la società rovinano intorno, ha colori per descrivere la cattiva e non la buona famiglia. E in fatti le prime scene della commedia ci sembrano per la puerilità degne del Chiari: ma quando in quell’arcadia domestica fanno irruzione i mal maritati, la signor Angiola e il signor Raimondo, e vi destamo malumori, sospetti e lagrime, vale a dire il dramma, anche l’autore ritrova quasi il suo cammino.
Poichè la commedia è ben costruita: di fronte all’idillio della casa d’Anselmo, l’odio, la lotta implacabile dei due coniugi vicini; dopo la visita di Angiola a Costanza e di Raimondo a Fabrizio nel primo atto (v. Ch. Dejob, Les femmes dans la comédie etc, Paris, 1899, p. 280), con uno sfogo di denigrazione scambievole, la visita di Angiola a Fabrizio e di Raimondo a Costanza nel secondo e nel terzo, con la duplice seduzione fallita (e. s., p. 281): e in fine i buoni e i tristi pacificati per opera di Anselmo (un Pantalone goldoniano un po’ rimbambito). — Noi la vediamo quella signora Angiola, tutta accesa in viso, inconscia quasi della sua corruzione (I, sc. 15), crediamo di averla udita noi stessi a dir male del marito, mentre Costanza cerca invano di chiuderle la bocca; la vediamo e la udiamo precipitarsi urlando per le scale alla chiamata di Anselmo, insieme con quel Raimondo, suo degno compagno, che zoppica in causa dello scanno gettatogli dalla moglie (III, 16). Peccato che il dramma, intravisto dal genio di Goldoni, sia venuto meno nella esecuzione; e che l’autore siasi contentato tutta la vita di ammirare forse la visione della fantasia, invece di rifare con miglior fortuna l’opera imperfetta.
Così la Buona famiglia restò a dilettare gli spettatori indulgenti di qualche teatrino privato (Mémoires, II, I. e), ma non fu bene accetta sulle scene