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390 ATTO SECONDO


Raimondo. Non sarà forse minore l’inquietudine che provo io; ditemi, signore, in grazia, da quell’uomo onesto che siete: è egli vero, che la signora vostra abbia prestati alla moglie mia dei denari sopra di alcune gioje?

Fabrizio. È verissimo. Cento scudi le ha dato.

Raimondo. E queste gioje in che consistono?

Fabrizio. Parmi che m’abbian detto in un pajo pendenti e in un anello, io credo.

Raimondo. Non le avete vedute voi queste gioje?

Fabrizio. Non le ho vedute. Mia moglie volea mostrarmele, ma quello che ella fa, è ben fatto, nèe mi son curato vederle.

Raimondo. Che dite, eh, della signor’Angiola? Può darsi sfacciataggine maggiore di una moglie senza rispetto?

Fabrizio. Dite piano, signor Raimondo.

Raimondo. In che averà ella impiegati li cento scudi? Voglia il cielo, che ciò non sia con vergogna nostra.

Fabrizio. Ma non dite sì forte.

Raimondo. Lasciatemi sfogare. Qui non c’è nessun che mi senta.

Fabrizio. Ci potrebbe essere qualcheduno che vi sentisse.

Raimondo. Questo poco mi premerebbe. Così ci fosse Angiola stessa, che le vorrei dire in faccia pazza, sciagurata, viziosa.

Fabrizio. Signore, se non cambiate discorso, io me ne vado.

Raimondo. Vorrei un piacere da voi.

Fabrizio. Comandatemi.

Raimondo. Che mi faceste vedere le gioje che colei ha lasciato in pegno, per riconoscerle se sono desse.

Fabrizio. Volentieri. Nardo. (chiama)

Nardo. Signore.

Fabrizio. Tenete questa chiave. Aprite per codesta parte. Andate dalla padrona; ditele che si contenti mandarmi quel pajo pendenti e quell’anello che ebbe questa mane da custodire.

Nardo. Sì signore. (parte, poi torna)

Fabrizio. Vedete? Voi dicevate forte, ed il servitore sentiva.

Raimondo. Credetemi che poco preme. Le pazzie di mia moglie sono oramai famose. Tutti sanno ch’ella è una testaccia del diavolo.