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386 ATTO SECONDO


Angiola. Se il cielo mi avesse dato un marito di questa sorte, felice me!

Fabrizio. Signora, alle corte: io non son fatto per tali ragionamenti. Se qualche cosa da me le occorre, mi dica il piacer suo, e lasciamo da parte le cerimonie.

Angiola. (È un poco ruvido veramente; lo piglierò per un’altra parte). (da sè)

Fabrizio. (Le ho sempre odiate le adulazioni). (da sè)

Angiola. Signore, voi sarete ben persuaso, che il giojello datovi in pegno da mio marito, ed i spilloni ancora, son gioje mie, sopra di che il marito non ha dominio veruno.

Fabrizio. Anzi, signora mia, son persuaso al contrario; e credo fermamente, che di tutto ciò che ha la moglie, possa il marito disporre.

Angiola. Sarà dunque in libertà del marito di rovinare affatto la moglie?

Fabrizio. Io, compatitemi, distinguerei vari casi. Se il marito è savio, e la moglie no, può il marito dispor di tutto; se la moglie è savia, e il marito no, si fa in modo che non possa il marito dispor di niente. Ma se tutti due mancano di saviezza, fanno a chi può far peggio, nè si possono fra di loro rimproverare gli arbitri.

Angiola. Fra queste tre classi così politamente distinte, in quale sono io collocata, signor Fabrizio?

Fabrizio. Non istà a me il giudicarlo, signora.

Angiola. Ma se il marito mio, secondo voi, può disporre, io non sarò la savia.

Fabrizio. Guardimi il cielo, ch’io mi avanzassi a dir cosa che vi potesse offendere.

Angiola. Non mi offendo di niente io. Da voi ricevo tutto per amicizia. Ma caro signor Fabrizio, mettetevi le mani al petto: mio marito ha impegnato la roba mia, e la roba mia che ho portato in dote, non me la può impegnar mio marito; e voi, se siete quell’uomo onesto che vi decantano, conoscerete che ragion vuole ch’io le riabbia.