Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1911, XII.djvu/247


I MALCONTENTI 241


Felicita. Ma egli non sente ora. Là non c’è, non lo vedo.

Policastro. E se ci fosse, non parlerei; perchè se io dico una parola, egli ne vuol dir dieci, e sempre vuol avere ragione.

Felicita. Davvero, davvero, questo signor zio vuol far troppo. Per che causa si sono attaccati presentemente?

Policastro. Ogni giorno non si sente altro da lui che rimproveri, che consigli, che dicerie e sbeffature. Chi sente lui, io sono un poltrone che non fa niente. Mi rimprovera, perchè levo un po’ tardi, perchè vado poco fuori di casa, perchè non m’imbarazzo nelle cose della famiglia. Oh bella! siamo in due, un po’ per uno. Egli bada agi’interessi, al negozio, alle riscossioni, alle lettere e che so io; ma io in vent’anni continui ho avuto una moglie al fianco, che mi ha fatto diventar canuto prima del tempo. Ora è tempo che mi riposi. Gridi quanto vuole, dica quel che sa dire: io non voglio far niente. L’avete capita? io non voglio far niente. (si mangia un dattero)

Felicita. Certo; se il signor zio si leva presto, fa, gira e fatica, ha anche il piacere di esser egli il padrone di tutto; e vossignoria che è il maggiore, e ha la famiglia, non è padrone di niente.

Policastro. Di questo ci penso poco. Una lira al giorno mi basta, per i miei minuti piaceri. Ma non voglio far niente.

Felicita. Almeno, caro signor padre, pensi un poco ai suoi figli, non lasci che lo zio li tiranneggi così.

Policastro. Sicuro, che i miei figliuoli voglio che abbiano il lor bisogno.

Felicita. Ecco, ora tutte le persone civili che hanno il modo di poterlo fare, vanno in campagna, e noi dobbiamo star qui a nostro marcio dispetto.

Policastro. L’è che ci anderei anch’io un poco in villa: sono tant’anni che non ci si va.

Felicita. Ma perchè non ci andiamo?

Policastro. Perchè il signor Geronimo non vuole.

Felicita. E V. S. non è padrone quanto lui?

Policastro. Lo sono certo padrone: ancor io lo sono.