Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
216 |
Ecco un’altra commedia in versi, la quinta e ultima di quell’anno comico, dopo il Terenzio, la Peruviana, il Torq. Tasso, il Cavalier Giocondo. Fu questo il trionfo dei martelliani. N’era stanco e noiato il Goldoni, e il popolo stesso cominciava a mostrarsene sazio (v. lett. all’Arconati dei 5 apr. 1755). Pare impossibile che Gasparo Gozzi si ostinasse ad aver fede nei miracoli di quel metro (v. lett. ad Amedeo Swajer, 9 ott. ’55). Fino a questo punto il Goldoni aveva onorato della rima le commedie storiche, e le commedie orientali o di costume straniero, ma nel Festino si arrischiò a far cantare nei settenari a coppie madama Doralice e donna Rosimena. Per la prima volta nelle Massere fece uso dei versi dialettali, in una commedia di costume popolare veneziano. E la prova mirabilmente riuscì, che il Goldoni fin dai primissimi intermezzi vi aveva esercitato l’ingegno. Ma chi lo avrebbe creduto, dopo gli oltraggi poetici del Filosofo inglese, della Sposa persiana, del Terenzio? Scrive giustamente Maria Ortiz: «Le ineguaglianze, le sciatterie che in prosa passavano inosservate, nel verso apparivano come macchie che deturpavano l’opera. Ma le commedie in versi e in dialetto chi potrebbe biasimarle? Le Donne di casa soa, le Massere, le Morbinose sono addirittura dei gioielli, che a nessun patto vorremmo vedere prive della loro veste poetica. Quei versi hanno una festività, un brio, una grazia leggera che incantano...» (Commedie esotiche del G., Napoli, 1905, p. 49). Ricordiamo che un felice saggio dialettale ci aveva offerto sior Tomio nel T. Tasso.
Certo sarebbe qui opportuno indicare quale posto occupi Goldoni nella poesia veneziana: ciò che nessuno ha detto finora (v. il breve cenno di B. Gamba, Serie degli scritti impressi in dialetto ven., Ven. 1832, pp. 152-4). Primissimo, se non isbaglio, poichè l’autore di quell’originalissimo poemetto ch’è il Mondo novo, è anche l’autore di certe graziosissime scenette dei drammi giocosi, e ha scritto il Campiello, le Morbinose, i Morbinosi, le Donne de casa soa, le Massere! Crescono questi capolavori dialettali in mezzo allo stupendo rigoglio della musa popolare a Venezia nel Settecento: una folla varia di poeti noti ed ignoti, fra i quali, intorno al ’50, predominano pel colorito Giuseppe Pichi, volgarizzatore del Bertoldo, per l’arguzia e la grazia Marcantonio Zorzi, per la facilita e l’oscenità Giorgio Baffo.
Clamoroso fu il successo delle Massere a S. Luca, con cui si chiuse lietamente il carnovale la sera degli 11 febbraio 1755. La commedia fece «strepito grande ed estraordinario davvero» come il Goldoni annunciava al conte Arconati-Visconti (lett. 5 apr.; v. anche il Complim. fatto al popolo ecc. l’ultima sera di carn., dopo la precedente comm. delle Massare ecc., ed. Pitteri, t. IV, p. 348; e Mémoires, II, ch. 21). L’onore più grande fu del Brighella Gandini, abile trasformista, che sostenne la parte di donna Rosega, e aveva l’anno prima interpretato quella un po’ affine di donna Rosimena nel Festino (v. Introduz.e per la prima sera dell’aut. dell’a. 1755, ed. Pitteri, t. V, p. 8. — Il Bartoli e il Rasi lo confusero con Luzio Landi, che restò fedele al Medebach e recitava a Sant’Angiolo). — Ma non durò a lungo la fortuna di questa commedia: sia per il crescente favore dei drammi spettacolosi e piagnucolosi, sia per la difficoltà della recita (come avviene dei Pettegolezzi, delle Baruffe ecc.), sia infine per esser stata la fama delle Massere superata e oscurata dal Campiello e dalle Baruffe chiozzotte. Si può anzi dire che in