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con la potenza del dialogo, e lontano dall’Arcadia: mentre il Seicento sopravviveva fra noi nella stessa commedia dell’arte e nel romanzo, e Carlo Goldoni chiamavasi pure nella colonia Alfea di Pisa Polissena Fegejo. Questa grande arte moderna, sì diversa dai secoli passati e dai suoi tempi, egli la trasse dunque tutta dal suo cuore! E pare che da lui cominci veramente nelle lettere un’altra Italia.

Nel gruppo delle massere emerge donna Rosega, tipo indimenticabile di serva astuta. Bisogna fare uno sforzo, fin da quando ci si presenta questa vecchia matta, per ricordare la moltitudine dei servi e delle servette del teatro comico, che ingannano i padroni ingenui: Goldoni ha conosciuto donna Rosega sul palco della vita, non su quello del teatro. Un po’ le somiglia, nel libro delle memorie goldoniane, la Teresa brutta ma ardente, che a Udine insegnò le malizie femminili al futuro commediografo appena diciannovenne (vol. I della presente ed., pp. 43-44, e Mém.es I, ch. 16). in quell’episodio giovenile c’è l’intreccio principale delle massere, con la storia del gioiello venduto da Teresa (qui Zanetta) alla padroncina. Ma forse Goldoni conobbe donna Rosega proprio a Venezia: la sorprese a braccio di Anzoletto, come alla fine dell’atto quarto, quando piglia per mano l’imberbe Momolo: «Vien qua, caro forner: — Dame man anca ti, che ghe ne voggio un per»; e si allontana ringalluzzita. Questo è comico goldoniano. Ed è spirito comico quello del secondo atto, quando Costanza, la moglie tradita, parte con uno scoppio di pianto, e donna Rosega si commuove e si asciuga anch’essa una lacrima: non buffoneria, perchè è qui la vita con i suoi contrasti incomprensibili di bene e di male.

Soltanto un esame particolare dell’intero teatro potrebbe mostrare di che natura sia il riso di Goldoni. Ci accontentiamo di uno o due esempi dalle Massere. I personaggi goldoniani, come avviene della più parte degli uomini, ignorano i propri difetti, anzi li riprendono con serietà negli altri: vivono poi spesso in una beata ingenuità, nella perfetta incoscienza della propria illusione. Così donna Rosega nel soliloquio del terzo atto, scena terza: «Sti vecchi i s’ha confuso, quando i m’ha visto in fazza; — Bisogna che i credesse che fusse una vecchiazza. — Poveri sgangarai ecc.» Così sior Biasio nella chiusa del medesimo atto: «Se pol dormir seguri drento delle so porte, — Quando che se gh’ha in casa massere de sta sorte». — Di qui prorompe facile l’umorismo.

Oh, i vecchietti goldoniani! Quel sior Zulian che non vuol sentir parlare di età e di vecchiezza: «Gh’ho dei anni, xe vero, ma tanto ben li porto, — Che no li sento gnanca. Xe vecchio chi xe morto». (I, I). E quando a gara esaltano le virtù delle proprie serve, nella prima scena dell’atto terzo! E di fronte ai due vecchi quel «pissotto» di Momolo, un po’ ammalizzito ormai dalla familiarità colle massere, che si vanta di aver speso per Meneghina il suo daotto (IV, 6). E ancora donna Rosega, tutta «in gringola», quando nell’ultima scena, in mezzo al pentimento generale delle sue compagne, confessa seriamente: «E mi farò giudizio, co vegnirò in ti anni». — Lascio poi le scene pittoresche, come quelle con cui s’apre la commedia, al fischio mattutino di Momolo che fa venir alla finestra le massere. Lascio il dialogo tutto moderno fra Costanza e Dorotea sulle magagne della servitù (sc. 3, a. IV, che fa riscontro alla 1.a a. III); e quello così ricco di astuzie e di arguzie di donna Rosega, in mezzo a sior Raimondo e a Meneghina confusi per diversa cagione.