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470 | ATTO QUARTO |
Il mal che gli sovrasta, si medica con niente.
Tomio. Via mo, da brava!
Eleonora. Udite, presto v’insegno il come.
Accese il van sospetto l’equivoco del nome;
Basta ei vada dal Duca, e dica a aperta ciera:
Non amo la padrona, amo la cameriera.
Tomio. Bravo! adesso ho capio. L’idea no me despiase.
Cossa diseu, compare?
Eleonora. Cosa risponde?
Tomio. El tase.
Eleonora. Ben, chi tace conferma. Intendere si può.
Tomio. Confermeu la sentenza? semio d’accordo? (a Torquato)
Torquato. No.
Tomio. Aveu sentio? (ad Eleonora)
Eleonora. L’ho inteso. (mortificata)
Tomio. Via, no ve vergogne.
Pur troppo de sti casi al mondo ghe ne xe. (ad Eleonora)
Quel che xe sta, xe sta: fenirla un dì bisogna;
Quando el mal se cognosse, prencipia la vergogna.
Fina che semo in tempo, se podè, remedieghe.
A sta povera putta quei do versi diseghe:
«Sarò tuo cavalier quanto concede
«La guerra d’Asia, e coll’onor la fede.
Eleonora. Dunque di me si burla, dunque mi sprezza ingrato?
Io non credea mendace il labbro di Torquato.
È ver ch’ei non mi disse: ardo per voi d’amore;
Ma tal speranza almeno fe’ ch’io nutrissi in cuore.
Dovea parlar più chiaro al cuor d’una donzella,
Dir doveva: Eleonora tu sei, ma non sei quella.
Delusa, scorbacchiata, me n’ho per male assai;
Quando mi fanno un torto, non me ne scordo mai.
Non sono una Marchesa, ma alfine son chi sono:
Me l’ho legata al dito, mai più gliela perdono. (parte)
è