Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1911, XI.djvu/383


TERENZIO 371


SCENA V.

Terenzio e Critone.

Terenzio. Udisti? (a Gitone)

Critone.   O te beato, cui merito e virtude
In giorno sì felice trarrà di servitude!
Terenzio. Le quattro picciol’arche piene mirasti d’oro?
Critone. Sventurata Creusa!
Terenzio.   Mio non è quel tesoro.
Critone. Usurpalo allo schiavo l’avidità romana?
Terenzio. No, che a me del signore l’alma lo dona umana.
Critone. Per chi dunque là dentro tal provvidenza è chiusa?
(accennando la stanza)
Terenzio. Consolati: in gran parte quell’oro è di Creusa.
Critone. Come?
Terenzio.   Sì, la pietade, l’amor, la tenerezza
Fa ch’io la bella estimi più assai d’ogni ricchezza.
Se a te il peculio tolse per lei destino rio,
Per suo, per tuo conforto, posso offerirti il mio.
Fingiti il greco Trace, che qui Lisandro ha nome.
(leggendo sulla tavoletta)
I duemila sesterzi sai dove sono, e come.
Critone. Santa pietà de’ numi! Se di fortuna il gioco...
Terenzio. Ecco Lucan che giunge. Curvati ancora un poco.
(Gitone si va curvando con pena)

SCENA VI.

Lucano ed i suddetti.

Terenzio. Signor, questo che miri è da te conosciuto? (a Lucano)

(Curvati). (piano a Gitone)
Lucano. Non rammento averlo unqua veduto.
Terenzio. Sovvienti quel che pose Creusa in tue catene?
Lucano. Una volta lo vidi; di lui non mi sovviene.
So ch’era Trace, antico, curvo.