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366 ATTO QUARTO
Terenzio. Deh, non voler per questo empia dir Roma e ria:

Qui pur regna ne’ cuori affetto e cortesia.
Nell’Attica, nel Lazio, in tutte le nazioni
In due partesi il mondo, misto di tristi e buoni:
Lucan, di cui tu cerchi, uomo senil, togato,
Onor del Campidoglio, delizia del Senato,
Ama l’onesto e il vero, gli cal dell’altrui bene,
Egual nella virtude ai satrapi d’Atene.
Critone. Tenti, comico vate, tenti lodarmi invano
Chi me d’unico figlio privò colla sua mano.
Nè crederò che aspiri degl’infelici al bene,
Chi figlia del mio figlio trattien fra le catene.
Terenzio. Cieli! tu di Creusa?...
Critone.   L’avolo sventurato.
Terenzio. Venisti a liberarla?
Critone.   Ah, lo volesse il fato.
Uomo vulgar non sono, ma povertà m’opprime,
E per sudar fra l’armi non ho le forze prime.
Picciola terra antica, degli avi miei retaggio,
Ridussemi, venduta, all’ultimo disaggio.
Sperai colle monete, tratte dal terren colto,
Il piè della nipote mirar da lacci sciolto,
Cambiando in varie merci dell’attico paese
Il danar ricavato per lucrar nolo e spese;
Ma il lungo viaggio e ’l lungo variar delle tempeste
Privommi d’ogni speme, privandomi di queste.
Per cinque intere lune gioco del mar si feo
Nave che me chiudeva quel burrascoso Egeo;
E cento volte e cento, m’empiero il cuor di gelo
Le Cicladi d’intorno all’isola di Delo.
Teti, Nettuno irati, orche, tritoni e glauchi,
D’Eolo sonando ai fischi tremuli corni e rauchi,
Nero il ciel, nere l’onde, nero de’ mesti il viso,
Lungo timor nell’alme parea sempre improvviso.
Canapi rotti e antenne, sdruscito, ahimè, il naviglio,