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356 ATTO TERZO
Terenzio. Signor, dal dolce peso di tante grazie oppresso,

Poco è ch’io ti offerisca la vita, il sangue istesso;
A me sei più che padre, se l’amor tuo m’invita
Al don di libertade, che val più della vita.
Lucano. Pria che all’occaso giunga di sì bel giorno il sole,
Fra il novero sarai della romulea prole.
Il nome di Terenzio, da me portato in prima,
Servo a te diedi ancora, in segno di mia stima.
Ora mi scordo i lacci, scordomi il grado antico,
Anticipo a chiamarti figlio, liberto, amico.
Meco da questo punto tu pur cambia lo stile;
Meno ti renda il grado a cui t’inalzo, umile.
A me svela il tuo cuore, confida i tuoi pensieri,
I labbri incoraggiti mi parlino sinceri.
Questa mercè ti chiedo a mia beneficenza:
Fammi, se mi sei grato, del cuor la confidenza.
Terenzio. (Come svelar l’affetto che all’amor suo contrasta?) (da sè)
Lucano. Segui a tacer? Che parli ti prego, e non ti basta?
Terenzio. Signor, di tue richieste veggo, conosco il fine,
Del giusto i miei desiri eccedono il confine.
Ravviso il contumace amor che m’arde in petto;
Reprimerlo son pronto, di spegnerlo prometto.
Se in ciò potei spiacerti, deh, per pietà, mi scusa.
Lucano. (Chi sa s’egli favelli di Livia, o di Creusa?
Un ver scoprir io temo, che m’abbia a recar pena), (da sè)
Terenzio. Vorrei, pria di spiacerti, soffrir doppia catena;
Quell’unico mi caglia giusto, soave amore,
Che grato ognor mi renda al cuor del mio signore.
Lucano. Che ami lo so. Svelato fummi di te l’affetto,
Ma dubbio ancor mi resta dell’amor tuo l’oggetto.
Non arrossir nel dirlo. Vedi qual per te sono
Disposto a compiacerti.
Terenzio.   Signor, chiedo perdono.
Cieco è Amor. La natura frale al desio s’arrende;
L’uso, il comodo, il tempo l’alme più schive accende.