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TERENZIO 349
Damone. Cieca fortuna ingrata! per te bestemmierei.

Lisca, non perder tempo. Già sai quel che far dei.
Vo’a ricercar fagiani, e non risparmio spese,
S’anche gettar dovessi quel che rubai in un mese, (parte)

SCENA III.

Fabio e Lisca.

Lisca. Buon per noi che a’ privati sien le ricchezze sparte;

Possiam dell’altrui bene noi pure essere a parte.
Di schiavo fortunato amici esser conviene;
Godrem da lui fors’anco dei pranzi e delle cene.
Fabio. Non è di coltivarlo questa per me ragione;
Ma calmi della stima ch’ave di lui il padrone1.
Sportula, col suo mezzo, maggior posso acquistarmi,
Ond’ è che di adularlo fa d’uopo, e vo’ provarmi.
Lisca. Farai poca fatica, se hai l’adular per uso.
Fabio. Andar chi non sa farlo vedo da’ ricchi escluso.

SCENA IV.

Terenzio e detti.

Terenzio. (D’un senator di Roma ecco i seguaci arditi:

Adulator clienti, e ingordi parassiti).
(da sè, restando indietro ed osservando i suddetti)
Fabio. Teco son lieto, amico, per il novello onore.
(a Terenzio, incontrandolo)
Lisca. Teco de’ nuovi acquisti rallegrami di cuore, (a Terenzio)
Terenzio. Sappia Creusa anch’essa le mie fortune, e speri.
Cambiar per lei fors’anco vedrò gli astri severi).
(da sè, non badando a quei che gli parlano, e in atto di incamminarsi altrove.)

  1. Zatta: che di lui ha il padrone.