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LA MADRE AMOROSA | 293 |
Pantalone. Sono qui, sono qui. In quella borsa ghe pol esser anca dei sassi.
Florindo. Che impertinenza è la vostra? Sono un galantuomo; ed a confusione vostra, ecco, osservate se sono sassi. (versa i denari sopra una tavola)
Ermanno. Che vedo? questi sono i danari che ho dato io sopra un gioiello: conosco le monete. Ecco le doppie, ecco i gigliati, li conosco. Oh, ecco la moneta che vale dieci zecchini.
Florindo. (Oimè! che cosa ho fatto! Il notaro non mi ha avvisato da chi gli sia stato dato il danaro). (da sè)
Ermanno. Ora capisco, signor Florindo, in che consistono le vostre ricchezze: un gioiello impegnato. Moglie mia, non è da fidarsi.
Pantalone. Mi intanto torrò suso i mille ducati.
Florindo. Lasciateli lì; e giacche la sfortuna mia mi vuole precipitato, prendeteli voi, e rendetemi la mia gioja. (a don Ermanno)
Lucrezia. Sì, prendiamo i nostri danari. (li prende)
Pantalone. E mi, sior don Ermanno, ve sequestro in te le man quella zoggia per el mio pagamento.
Ermanno. Ha ragione, e non la darò se non lo pagate.
Florindo. Oh giorno per me fatale! Ma che dico io d’un tal giorno? Sono anni che mi rovino, che mi precipito. Amici, compatitemi. La confusione mi toglie quasi il respiro. (parte)
Pantalone. Sior don Ermanno, se semo intesi.
Ermanno. Il gioiello sta qui per voi.
Aurelia. Povera figlia, vedi se tua madre ti ama, se ella prevedeva la tua rovina, e se a ragione si affaticava per impedirla.
Laurina. Mi vien da piangere in verità.
Lucrezia. L’abbiamo scoperto a tempo.
Ermanno. Manco male: fortuna, ti ringrazio.
Aurelia. Figlia, siete contenta dello sposo che vi ho procurato?
Laurina. Lo sarei, se il signor Conte mi amasse.
Aurelia. Innamoratelo colla bontà, se desiderate ch’ei vi ami.
Laurina. Eh signora...
Aurelia. Dite, parlate.