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288 | ATTO TERZO |
Lucrezia. Digli che non ci siamo.
Ermanno. Sì, non ci siamo.
Traccagnino. El sa che i gh’è.
Lucrezia. Chi gliel’ha detto che ci siamo?
Traccagnino. Mi no saverave.
Ermanno. Ci giuoco io, che gliel’averai detto tu.
Traccagnino. Mi no gh’ho dito gnente, signor.
Ermanno. Ma dunque come lo sa?
Traccagnino. L’è vegnù, l’ha dito: di’ a don Ermanno che mi preme parlare con lui.
Lucrezia. E tu che cosa hai risposto?
Traccagnino. La servo subito. Ghe lo vago a dir.
Ermanno. Lo vedi, ignorantaccio. Rispondendo così, gli hai detto che ci siamo.
Lucrezia. Orsù, digli che non possiamo.
Ermanno. Non possiamo.
Lucrezia. E che vada via.
Traccagnino. Che el vada via lu col negozio?...
Lucrezia. Che negozio?
Traccagnino. Quel negozio ch’el gh’ha con lu?
Lucrezia. Io non ti capisco.
Traccagnino. El gh’ha un negozio... un sacchetto pien de monede.
Ermanno. Pieno di monete? D’oro, o d’argento?
Lucrezia. Come lo sai che sia pieno di monete?
Traccagnino. Ho sentì ch’el lo sbatteva sulla tavola. E ho conossudo che le giera monede.
Lucrezia. Che sia?... (verso don Ermanno)
Ermanno. Chi sa?
Lucrezia. Digli che venga.
Ermanno. Sì, sì, digli che venga.
Traccagnino. L’ho dito mi, che el gh’ha un de quei negozi che fa dir de sì. (partendo)
Lucrezia. Che avesse portato i denari della contraddote?
Ermanno. Se li avesse portati, bisognerebbe accomodarla.