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286 ATTO TERZO


Florindo. Colà dovete venire, se li volete. Nell’atto di pagare un mio debito, intendo di rimettere il mio decoro pregiudicato.

Pantalone. Ghe dirò che li ho avudi, ghe lo prometto.

Florindo. Non signore. Colà porto i mille ducati. O venite a riceverli, o li darò a don Ermanno.

Pantalone. No so cossa dir. Co la vol cussì, vegnirò là a riceverli.

Florindo. Venite, signore: può essere che serviate di testimonio per le mie nozze.

Pantalone. De le so nozze? Con chi?

Florindo. Con donna Laurina.

Pantalone. Con donna Laurina?

Florindo. Sì, a dispetto vostro, a dispetto di donna Aurelia, e di quel signore che torvo mi guarda, ma non potrà mettermi in soggezione. (parte)

Pantalone. Ala sentìo? (al conte Ottavio)

Ottavio. Ho inteso, e giuro al cielo, non son chi sono, se non fo pentire quel temerario.

Pantalone. Caro sior Conte, ghe vol politica. No se scaldemo.

Ottavio. Voi che consiglio mi sapreste dare?

Pantalone. La lassa che vaga a tor sti mille ducati, e po la disconeremo.

Ottavio. Ma se frattanto....

Pantalone. La vaga da donna Aurelia. Vegnirò anca mi. (Me preme sti mille ducati. La camisa me tocca più del zippon). (da sè, e parte)

Ottavio. Eccomi nuovamente nel laberinto. Se costui torna a mettersi in credito degli avari, si rinnova il pericolo di donna Laurina, si destano nuovamente le smanie di donna Aurelia. Che sarà mai? Vadasi a ritrovare la dama. Sul fatto, conoscendo il male, vi si porrà il rimedio. Amore, ti prendi giuoco di me, ma io saprò trionfare di te medesimo, e saprò sacrificare ad un punto d’onore le mie passioni, e la vita ancora. (parte)