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a peso mio cotai ricevimenti | e mandami in sua vece a far suoi complimenti» (a. IV, sc. VIII). Per giunta alla derrata, le dà a sorbire che il conte diede cena e festino propriamente per divertimento della sua metà: «Non usasi, egli è vero, che soglia far la corte | con lai divertimenti lo sposo alla consorte; | ma in casa mia per altri, lo giuro e lo protesto, | farlo non ardirebbe un cavaliere onesto. | E chi è colei che avesse spirti sì vili e rei | d’esser da lui servita in fin su gli occhi miei?» (a. IV sc. VIII). Figuratevi, come rimane Doralice; se non scoppia, è un miracolo; vuole partire. In questo mentre s’appressa il conte; resta un istante con lei e la supplica in ginocchio di rimanere. Madama Doralice cede, entra in sala e fa un balletto col conte; ma quando vede la contessa allontanarsi, sclama di nuovo inferocita: «Con questi grilli suoi | or ora mando al diavolo la festa, lei e voi» (a. V, sc. I). La matassa finalmente si sbroglia come non poteva meglio desiderare la medesima contessa; perchè il troppo remissivo don Alessio prima ancora della cena si porta via la cara metà, e decide di abbandonare Venezia l'indomani per sempre. Tanto, riflette la Merlato (mem. cit. p. 54) «anche in campagna a lei non mancherà l’abilità di trovare degli aiutanti, o magari dei sostituti alla sua professione di marito!» Ne siamo persuasi anche noi.

Nessun intreccio complicato adunque in questo Festino; ma ripetiamo, schietta e vivace dipintura della società in cui Goldoni viveva; cioè smascolinamento d’uomini, maestrevolmente scolpito nel conte di Belpoggio, e abilmente disegnato nel marito della Doralice e in don Peppe; ripicchi e vanità femminili (quando non siano ben peggio, come in Doralice) schizzate con geniale leggerezza di tocco nella baronessa Oliva e nella marchesa Dogliata. Non c’è insomma sillaba da levare a quelle due terzine del Capitolo per la vestizione di S. Ecc. la signora Chiara Vendramin (Componim. div., Ed. Pasquali, t. II, pp. 155), nelle quali il nostro commediografo giudicava con queste parole la produzione:

          «El mio Festin xe veramente pien
               De quei gusti che corre ai nostri dì,
               Gusti che sotto el miei sconde el velen.
          E da certe lizion me par a mi
               Se possa dir: Vardè cossa xe el Mondo!
               Quanta zente va a perderse cussì!»

Diremo infine col Masi: Se nella Dama prudente don Roberto compare un innamorato geloso «che non vuol celare la sua passione se non per un falso amor proprio, per timore cioè delle beffe della gente di moda, degli sfaccendati e dei maldicenti», nel Festino troviamo il rovescio della medaglia; invece del marito, la gelosa è la moglie «rara avis anch’essa a questo tempo e fra quei costumi, i quali faceano dire all’Alfieri non occorrere in Italia il divorzio, perchè il matrimonio era già un divorzio esso stesso». (Scelta di comm. di C. C., Firenze, Le Monnier, 1897, Vol. I, p. 126).

La commedia, a quanto ci narra l’Autore (V. cit. prefaz. nell’ed. Pitteri), «non solo a Venezia ma da per tutto ebbe estraordinaria fortuna». Secondo il Bartoli, Goldoni avrebbe scritto per Luigi Landi «che in alcune commedie recitò da Vecchia» oltre alle parti di Curcuma, di donna Ròsega, anche quella