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assai volontieri; perchè ci confermano per bocca dell’autore quale meta egli si prefiggesse con l’impartire una schietta espressione drammatica alle reali costumanze della società veneziana del suo tempo. Qui per esempio, come nella Dama prudente, nel Cavaliere e la dama, nelle Femmine puntigliose «ritrasse i cavalieri serventi con sì luminosa evidenza da risultarne una satira addirittura sorprendente» (Maria Merlato, in Mariti e cav. serv. nelle comm. del G., pp. 38); onde facciamo nostro il giudizio di Emilio Piazza «essere tali commedie ben lungi dal confermare la leggenda troppo accettata dal Rabany che il Goldoni fosse un timido riproduttore del vero che anzi a mettere in ridicolo i cicisbei del settecento, ci voleva più coraggio che oggi ad attaccare i magistrati, i giudici, il governo» (Riv. teatr. ital., Anno VII, Vol. X, Fasc. 7-9, pp. 1 20). Che più? Se il Festino piacque a Venezia ed anche altrove, non sortì dovunque l’eguale fortuna, avendo voluto il caso «si trovassero degli originali simili troppo a qualche personaggio ridicolo della commedia e non mancò» (scrive lo stesso G. nella cit. prefazione) «chi dicesse a bella posta l’avessi fatto». E notate che trattasi d’un personaggio secondario, la macchietta piacevolissima di don Peppe, l’antico ganzo della vecchia Rosimena.

Un festino che lo spensierato conte di Belpoggio pretende dia la moglie a madama Doralice sua cicisbea, per la quale dà fondo al suo patrimonio, forma il nocciolo di tutta l’azione. La povera e virtuosa contessa, che sa pur troppo come quella donna di lingua pronta e di coscienza elastica le abbia rubato il cuore del marito, si ribella; ma predicano al deserto sia lei che si busca della pazza, sia don Maurizio, suo padre, che prospetta al genero le tristi conseguenze della sua vita dissipata. Neanche Don Alessio, il marito tre volte buono della Doralice, sta nello zucchero; egli ha già speso per essa in un abito nuovo con relativo pizzo i denari messi da parte per la pigione, e gli tocca ora sentirla strillare infuriata perchè il pizzo non basta, e al festino quindi non si recherà. Lo dichiara financo a don Maurizio, deplorando (guardate buon cuore!) che il genero si rovini con tante spese, e maltratti quell’angelo della moglie. Questa visita che all’astuta Doralice fa il padre della contessa informandone poi la medesima, nota acutamente il Dejob, forma «le noeud très original de la pièce» (Las femmes dans la com. franç. et ital. au XVIII siecle p. 260). Lasciate del resto «colei la briga di procurarsi con l’argento del conte il resto della guarnizione; a colei che sa al pari di tutte le femmine del suo stampo come «un misto di finezze, un misto di strapazzi | mantiene a lor soggetti tanti poveri pazzi» (a. II sc. XIII). Ed eccola più tardi nei pressi d’un caffè affermare alla contessa, ch’è mascherata e non crede essere riconosciuta, la immensa sua stima per la moglie del conte; sapere cosa mormorino le male lingue sui suoi rapporti col conte stesso; essersi proposta di non andare al ballo se non invitata dalla padrona di casa, ma bramar ardentemente di trovarcisi per difendere il proprio onore. La contessa che ha già prestabilito il suo piano, le manda l’invito; e ordina al paggio Lesbino di farla avvertita, tostoche madama Doralice si presenterà. Lesbino obbedisce, e quando Doralice capita, si sorprende non essere ricevuta dal conte, che pur le aveva promesso d’introdurla. Ma non c’è nulla da sorprendersi, le osserva la Belpoggio, corsa ad incontrarla: «Scusate, se non venne il Conte al suo dovere; | ei balla, e quando balla, vi ha tutto il suo piacere. | Ei lascia