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60 | ATTO PRIMO |
Eufemia. Oh certissimo. È una cosa da niente. Non potrei dire di no. Ma... sappiate, amica, che questa sera ho un impegno di restare in casa.
Aspasia. Bene, e noi verremo alla conversazione da voi.
Eufemia. Bisognerebbe che lo sapesse il signor Pantalone.
Aspasia. Che? avete da dipendere dal marito per tenere un poco di conversazione? Siete ben particolare davvero! Nella nostra compagnia siamo otto donne, ognuna delle quali si vergognerebbe dir queste cose al marito. Basta ch’egli lo sappia, quando paga la cera, il caffè, o le carte; e qualche volta lo sa, quando gli tocca pagare la perdita della consorte.
Eufemia. Ciascheduna famiglia ha le sue regole particolari.
Aspasia. Oh, la vostra regola non mi piace.
Eufemia. Il mondo non sarebbe sì bello, se tutti fossero di un umore.
Aspasia. Dunque in casa vostra non ci volete.
Eufemia. Io non dico di non volervi, dico che lo ha da saper mio marito. Potrei anch’io prendermi la libertà di far senza dirlo, e son certa che non osarebbe rimproverarmi; pure gli ho sempre usato questo rispetto e glielo userò sempre mai. Credetemi, donna Aspasia, a lungo andare non è poi cosa tanto cattiva questa discreta soggezion della moglie. Alla fine dell’anno si trova l’economia in bilancio e la riputazione al sicuro.
Aspasia. Oh, oh, che massime antiche! Queste le avete studiate sui libri, non le avete certo imparate da veruna donna del nostro secolo.
Eufemia. Queste sono massime che ho imparate da me medesima, e sarebbero le vostre ancora, se un altro mondo non vi occupasse.
Aspasia. Per me son contenta così. Ho un marito, grazie al cielo, che non sa dirmi di no di niente. Vado dove voglio, e non glielo dico. Lo faccio venir con me se sono sola, lo licenzio se sono accompagnata. Invito a casa chi voglio; vado a pranzo fuori, quando mi pare. Se spendo, egli non dice nulla; se perdo, egli paga: questo mi par che si chiami vivere.