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     Se fazzo mal, chi dixe mal, me onora;

Perchè lodando i parti più felici,
Vedo che el gusto mio piase e innamora.
     Tutti quei che ha cria, xe tutti amici,
E spero in breve convertir ancora
Quei che ama i spettacoli e i pastici».

Il principio corrisponde ai versi della sc. 5, atto I, del Festino: «E l’ho sentito io stessa dir che più degli evviva — I scherni a tal commedia del popolo gradiva ecc.» La fine poi colpisce il Chiari e il suo partito.

Del resto dentro del suo animo il Goldoni non si mostrava persuaso che la commedia meritasse l’ostracismo del pubblico (v. pref.), poichè al di fuori di quella trovava la ragione della severità eccessiva dei Veneziani, giudici di solito assennati e benevoli del suo teatro. E, invero, se non era nuovo il carattere del protagonista, e se qui ha sempre più l’apparenza d’un deus ex machina in atto di risolvere tutti i nodi, la pittura del cortesan ha pur sempre attrattive, almeno per noi posteri; e la figura di Pantalone, o come altrimenti si chiamasse nella recita, non ha perduto ogni vivezza. Certo ha Momolo (l’Uomo di mondo) maggiore agilità, e il Cavaliere di buon gusto (v. vol. V) maggiore originalità; tuttavia ci convien sempre ammirare l’arte suggestiva del dialogo di papà Goldoni, come per es. nella sc. 7 del III atto, quando Pantalone sta alle prese con Flaminia e Clarice. — Delle due fanciulle Flaminia piace di più, perchè capace di amare, ma artisticamente vive meno di Clarice, malizioso tipo femminile, ricco di arguzia goldoniana. Il pubblico restò deluso, perchè voleva novità, e non permetteva al suo autore di indugiare nella ripetizione di figure già note, sia pure accarezzando qualche nuovo atteggiamento. Poteva ciò parere stanchezza od esaurimento della fantasia creatrice; tanto più, quando i personaggi minori passavano stecchiti e sbiaditi, senza riso, sul palcoscenico. Solo Ottavio, fra i giocatori ond’è pieno il teatro di Goldoni, sembrò al Maddalena «carattere non male osservato» (Giuoco e giocatori nel teatro di G., Vienna, 1898, p. 20). Martino fa desiderare il famoso Ludro dell’Uomo di mondo, e perfino Pandolfo, il biscazziere, nella Bottega del caffè.

Un nuovo personaggio, una caricatura, richiama la nostra attenzione, l’ipocondriaco Celio; ma, come si può immaginare, ha l’aria d’uno sciocco plebeo di fronte al classico Argante (avvertì l’imitazione Giulio Bertoni, v. Modena a C. G., 1907, p. 409; sfuggì ad altri); e partecipa di quel basso comico a cui appartengono i melodrammi giocosi del Settecento. Uno infatti tra gli intermezzi giovanili del Goldoni, scritti per la compagnia Imer del teatro di S. Samuele, s’intitola L’Ippocondriaco (1735): dove la moglie travestesi «da chimico» per guarire la mattia del marito. Ne parlò di recente il Toldo (L’oeuvre de Molière etc., Torino, 1910, pp. 382-3; v. anche R. Schmidbauer, Das Comische bei Goldoni, München, 1906, p. 84) che additò la serie degli ipocondriaci sul teatro italiano dopo Molière (pp. 263-271; v. inoltre pp. 346 e 436 e l’indice del vol. alla voce Malade imaginaire), cominciando dal dramma per musica del Villifranchi (L’ipocondriaco, Firenze, 1695: ripreso a Bologna nel 1717). Maggiore originalità d’invenzione offre il Tormentator di se stesso (Toldo, 1. c., 336), faticosa commedia del Nelli stampata soltanto l’anno 1754. Ma fin dal carnovale del ’50, nel secondo anno della riforma