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si diffuse fra noi molto prima del 1753, insieme con altre imitazioni antecedenti all’Osservatore del Gozzi (per es. nel ’52 il Tevernin a Ven. stampava La Spettatrice di Elisabetta Hayvood, tradotta dal francese). Sebbene la nostra commedia non abbia a che fare con l’opera di Addison e Steele, il filosofo goldoniano, copiato dai libri piuttosto che strappato alla vita, ripete insulsamente un tipo letterario comune. Eppure i versi che sono alla fine della 2.a scena dell’atto I, e quelli che chiudono la commedia, e altri ancora (III 17, IV 16), declamati con voce sonora a un pubblico del Settecento, bastavano a scuoter gli applausi.
Invece le due figure dei quaccheri credo lasciassero incerto l’uditorio. La fallita caricatura ci mostra però la scarsa tenerezza del Goldoni per la setta diffusasi in Inghilterra un secolo avanti, oggetto di viva curiosità alla più parte dei viaggiatori oltre Manica. Fin dalla fine del Seicento tacciava i Tremolanti d’ipocrisia il buon napoletano Gemelli Careri (Viaggi per l’Europa, Napoli, 1701): e li aborriva come eretici nel principio del Settecento il patrizio udinese Nicolò Madrisio (Viaggi per l’Italia, Francia e Germania, Venezia, 1717, t. II). Ma le prime quattro Lettere inglesi di Voltaire (1734: ristampate poi nel Dictionnaire philosophique), benchè tinte di scherzo, resero familiari e care anche in Italia talune massime del fanatico Fox, e contribuirono a tessere l’aureola intorno al capo di Guglielmo Penn. Le ammirazioni sbollirono presto, e la stessa curiosità scemò e quasi cessò prima dell'89. Non sembra inutile ricordare che per le prediche contro il lusso, gli ossequi, il pregiudizio della nascita, le armi ecc., anche qualche brontolone veneziano sul tipo dell’avvocato Costantini, autore delle Lettere critiche, o dell’abate Seriman, autore dei Viaggi di Wanton, poteva rassomigliarsi a un quacchero: e forse la satira del Goldoni colpiva più d’un volgare filosofante.
E la satira abbonda in questa commedia. Felicissima la punta contro i romanzi, nella prima scena, che feriva il Chiari. Debole la caricatura del francese galante (Lorino, tipo forestiero di servente, dimenticato dai critici) e della donna alla moda (madama Saixon). Madama di Brindè, la vedova letterata, che vorrebbe conciliare Cartesio e Newton, e si trastulla coi vortici e le attrazioni, come le famose filosofesse di Francia, e per riflesso d’Italia, nel Seicento e nel Settecento, è un ritratto diverso dalla Donna di testa debole, benchè l’autore si permetta spesso di celiare. Ai tempi di Gaetana Agnesi, conosciuta forse dal Goldoni nel ’53, non era insolito il linguaggio matematico sulle labbra di una dama, ma pur troppo la Brindè, invece che a figura viva, ci fa tornare colla mente alle ineffabili protagoniste dei romanzi del Chiari. Se è vero quello che la Saixon, la sorella maligna, racconta a Milord («Svegliasi a mezza notte ecc.» II, 6), ella sarebbe invasa dalla malattia delle Dottoresse di Molière, e non ha da che fare con la ingenua madamigella Giannina dei Mercatanti.
Delle idee di uguaglianza sociale non si mostra fanatico l’autore (II, 3 e III, 4): ammira invece la potenza dei commercianti in Inghilterra e la loro autorità nella libera Camera dei Comuni. Si rileggano le parole di madama Brindè al signor Saixon: «In Londra i mercatanti son del governo in stima ecc.» IV, 14. Il flemmatico Saixon, che da principio (I, 1) sembra confondersi nella folla dei mariti bonari o alla moda, così comuni nel teatro del