Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1910, X.djvu/413

NOTA STORICA


Che il Goldoni sul teatro di S. Luca riacquistasse buona parte della sua libertà, più ancora che dai successivi contratti col primo (Antonio) e col secondo (Francesco) fratello Vendramin, si scorge dall’esame del suo teatro. È bene ricordare come il nostro commediografo, all’infuori della Pamela (1750) e del Moliere (1751), non avesse sbandito mai del tutto le maschere, mentre scriveva per la compagnia Medebach: nemmeno nella Locandiera (v. l’Aut. a chi legge). Nel nuovo teatro, spinto dal bisogno di ottenere in qualunque modo un trionfo, e insieme dal desiderio di sperimentare con ardita novità il proprio ingegno, mette in scena una Sposa persiana, e poco dopo un Filosofo inglese. Deviazioni certamente dal cammino dell’intrapresa riforma della Commedia; errori d’arte, ma che giovarono più che non si creda all’indipendenza del genio goldoniano, e furono anzi necessari per poter giungere dal mondo un po’ monotono e tirannico delle maschere a quello crudamente reale, ma originale, dei Rusteghi e delle Baruffe chiozzotte.

Lasciata per ora da parte la troppo famosa tragicommedia, della quale si parlerà a suo luogo, esaminiamo brevemente il Filosofo. Quando Goldoni trasporta la scena fuori d’Italia, a differenza del Chiari e poi del Gozzi, ha cura di sbandire le maschere; qui, come nella Pamela, pur senza attingere alla fonte dei romanzi stranieri, l’autore ci guida nella felice Inghilterra, patria dei filosofi agli occhi degli Italiani e dei Francesi del Settecento, oltre che dei commercianti. E come nella Sposa persiana in grazia della materia tragica, così qui per ornare un argomento più o meno filosofico, il Goldoni fece volentieri ritorno al fortunato verso martelliano del Moliere, meglio adatto della prosa a riempire di suono una sala più vasta che non fosse quella del teatro di Sant’Angelo. Non occorre avvertire che la nuova commedia era dedicata al miglior pubblico della colta Venezia, al pubblico dei letterati, fra i quali più d’uno seguitava sdottoreggiando a cianciare che la commedia, se vuol appartenere propriamente alla poesia, dev’essere scritta in versi. Diventò cotesto canone inviolabile per il Chiari e i suoi seguaci, subito dopo il trionfo della Sposa persiana e, a breve distanza, delle Sorelle chinesi nel teatro rivale; e durò sacrosanto nel petto dell’abate bresciano, poeta novello della compagnia Medebach, per lo spazio di ben sette anni, quando ormai era cessato da un pezzo a Venezia il furore dei martelliani: fin che non irruppe sulle lagune dal palcoscenico di S. Samuele la risata delle Tre melarance (carn. 1761).

Notiamo qui ancora, come nella Pamela e nel Moliere, la scena fissa; e non soltanto ampliata come nella Bottega del caffè (v. vol. IV della presente ed., p. 297), sì da rappresentare una pubblica strada con due botteghe e una loggia, ma suddivisa, sì da permettere azione simultanea. Il buon Goldoni, che non degnava ricordare gli esempi della commedia dell’arte, cita nella prefazione quelli recenti di Domenico Barone marchese di Liveri, commediografo di S. M. Carlo III, benchè confessi candidamente di non esser venuto «in chiaro» alla lettura di quei singolari mostri drammatici, degnamente rappresentati dal Partenio, che almeno offre per guida la scena stampata «in un foglio a parte con la nota numerale de’ principali suoi luoghi»