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360 ATTO TERZO
Non condannarvi ardisco d’ingiusto all’innocenza;

Credetemi, signore, v’inganna l’apparenza.
O reo non sono, o almeno esserlo non mi pare;
Se fossi reo, punito mi han le mie pene amare.
Dalla clemenza vostra chiedo pietade in dono;
Per grazia, o per giustizia, donatemi il perdono.
Certo che non lo chiedo spinto da vil timore,
Ma sol perchè mi cale del cuor di un protettore.
Milord. Jacob, mi conoscete. Non sono un disumano.
Al cuor di un cavaliere voi non parlaste invano.
Serbate il dover vostro, portatemi rispetto,
E nella grazia mia rimettervi prometto.
Jacobbe. Signor...
Milord.   Voi con madama sapete i desir miei.
Jacobbe. Non fui, da che li seppi, veduto andar da lei.
Milord. È ver, ma si coltiva l’abuso degli affetti
In lontananza ancora, coi messi e coi viglietti.
Jacobbe. L’arte de’ miei nemici conoscere vi prego.
Alla Brindè un viglietto mandai, non ve lo nego.
Mandommi la Brindè risposta immantinente;
Serbo il suo foglio ancora: ecco, Jacob non mente.
Che trattisi di amori per altro non si pensi;
Sono diversi molto di questa carta i sensi.
Anzi, se li leggeste, milord, io mi lusingo
Che chiaro si vedrebbe s’io son leale, o fingo:
Se voi non lo sdegnate, la pongo in vostra mano,
Vedrete che i nemici mi hanno accusato invano.

SCENA XV.

Madama di Brindè dalla propria casa, e detti.

Milord. (Parla in tal guisa e prega, e tanto offre e s’impegna,

Che la natura e il grado l’ira a frenar m’insegna). (da sè)
Il foglio di madama leggere non ricuso. (a Jacobbe)
Jacobbe. Eccolo.