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Rosaura. Prima di presentarmi al Sovrano, ho destinato ricorrere a un altro giudice.

Beatrice. A qual tribunale?

Rosaura. A quello del vostro cuore medesimo. Voi siete pia, siete giusta; nasceste dama, e non sapete che nobilmente pensare. Nota è la fama della vostra virtù, e il modo con cui meco vi diportate, autentica la vera bontà vostra. Voi conoscete la mia ragione, a voi son noti i diritti ch’io serbo su questa terra. Capace non vi conosco di volermi oppressa con ingiustizia, anzi voi medesima sarete il mio avvocato, la mia protezione, la mia difesa. Se io non conoscessi appieno la vostra virtù, non vi aprirei sì facilmente il mio cuore, saprei anch’io dissimulare, fingere e lusingarvi. Potreste perdermi, se aveste cuore di farlo. Potreste togliermi ogni mezzo ai ricorsi, troncarmi ogni strada alla Corte; e non sareste la prima, che in caso simile avesse dato mano alla violenza, all’inganno, alla crudeltà. Vi conosco, di voi mi fido. Vi parlo col cuor sulle labbra, e chiedo a voi medesima giustizia, risarcimento, consiglio, compassione, pietà.

Beatrice. Ora che a me dinanzi avete trattata la vostra causa, volete che io pronunzi la mia sentenza?

Rosaura. Pronunziatela. Con impazienza l’attendo.

Beatrice. Voi siete l’erede del marchesato di Monte Fosco.

Rosaura. E vostro figlio...

Beatrice. Non può ritenerlo, senza taccia d’usurpatore.

Rosaura. Dunque poss’io sperare di conseguirlo?

Beatrice. Un giudice senza forze non può assicurarvi di più.

Rosaura. L’autorità della madre non potrà costringere il figlio?

Beatrice. Sì, vi prometto di farlo. Florindo non è fuor di tutela. Posso disporlo, posso costringerlo al suo dovere. Non tralascerò mezzo alcuno per illuminarlo della ragione1 e della giustizia. Egli è avvezzo ad ascoltarmi, ad obbedirmi; e quando in ciò l’ambizione lo rendesse restio, saprò volere, saprò mi-

  1. Bett.: della verità, della ragione, della ecc.