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456 | ATTO SECONDO |
Pantalone. No, la veda. L’ho visto andar a casa giusto adesso.
Florindo. Andiamo, signora Beatrice.
Beatrice. Diavolo! Avete paura che vi mangi la parte vostra? Me n’anderò.1 (agitandosi per la scena
Pantalone. La compatissa, patrona. Mi son un galantomo, e alla mia tola no ricuso nissun. Da mi la xe restada delle altre volte, e se la vol, no la cazzo via.
Beatrice. Un’amica di tanti anni! sarebbe bella. (si leva il zendale, ed entra per dove è entrata Rosaura
Pantalone. (Tolè2, la vol restar a disnar). (da sè
Florindo. (Beatrice resta, ma io partirò). (da sè) Signor Pantalone, gli son servo.
Pantalone. Patron mio reverito.
Florindo. Non voglio incomodarla, perchè è ora di pranzo.
Pantalone. No so cossa dir: la fazza ela. Ma in casa mia, specialmente co no ghe son mi, la prego de no ghe vegnir.
Florindo. Parleremo con comodo. (alterato
Pantalone. Co la comanda.
Florindo. E parleremo in un modo, che forse vi dispiacerà.
Pantalone. Come, patron? Cossa voravela dir?
Florindo. Con comodo, con comodo. (andando
Pantalone. La se spiega.
Florindo. Vi porto rispetto...
Pantalone. La me lo perda, se ghe basta l’anemo.
Florindo. Lo scriverò a mio padre.
Pantalone. La ghe lo scriva anca a so sior nonno.
Florindo. Farmi andar a Livorno? Farmi tornar a Venezia?
Pantalone. Chi gh’ha dito che la vaga, chi gh’ha dito che la torna?
Florindo. Ma voi sapevate il motivo della partenza; vi era noto l’imminente mio arrivo.
Pantalone. Bisognava scriver.
Florindo. Dovevate aspettare.