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260 ATTO SECONDO

Ottavio. Quanti ne abbiamo ora d’entrata? Una volta erano quattromila.

Beatrice. Oh, adesso le cose vanno malissimo. Dopo che avete tralasciato di negoziare, ogn’anno si sono intaccati i capitali. Levando ogn’anno trecento scudi netti, non vi restano ricchezze nel patrimonio.

Ottavio. Basta; lascierò a voi tutte le mie facoltà col titolo di erede universale, con l’obbligo di dare a Florindo trecento scudi l’anno, e il testamento sarà presto fatto.

Beatrice. Con facoltà ch’io possa col mio testamento beneficar chi voglio.

Ottavio. Ci s’intende.

Beatrice. Questa sera lo fate, e domani non ci pensate più.

Ottavio. Non vedo l’ora d’averlo fatto.

SCENA VIII.

Arlecchino e detti.

Arlecchino. Signori... (forte)

Beatrice. Zitto con quella voce, che fai stordire il signor Ottavio. (Hai trovato il notaio?) (piano)

Arlecchino. (El vegnirà stassera). (piano) Siori, gh’è una novità.

Beatrice. Che c’è?

Arlecchino. Se tratta matrimonio tra la fiola de sior Pantalon...

Beatrice. E Lelio mio figlio. Lo sappiamo.

Arlecchino. Siora no. Co sior Florindo.

Beatrice. Eh via, pazzo.

Arlecchino. Me l’ha dit Brighella, e chi trattà sto matrimonio, l’è Corallina.

Beatrice. Ah indegna!

Ottavio. Non andate in collera. (a Beatrice) Ma come può essere? (ad Arlecchino)

Arlecchino. L’è cussì de siguro. Brighella me l’ha confidà.

Beatrice. (Ah, questa è una cosa che sconcerta tutti i miei di-