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258 ATTO SECONDO

Ottavio. Se moro io, ne prenderete altri?

Beatrice. Oh, non c’è pericolo.

Ottavio. Oh, ne men io; se morite voi, non ne prendo altre.

Beatrice. Io ho da pregar il cielo che viviate, per molte ragioni.

Ottavio. E quali sono, giojetta mia?

Beatrice. La prima, perchè vi voglio bene.

Ottavio. In questo poi siete corrisposta. Son tutto vostro; non ci è pericolo che vi faccia torto.

Beatrice. Secondariamente, perchè mi trattate sì bene, che sarei un’ingrata, se non lo conoscessi.

Ottavio. Ah? vi tratto bene in tutto?

Beatrice. Sì, caro signor Ottavio, in tutto. E per ultimo, se voi moriste, che cosa sarebbe di me, poverina?

Ottavio. Ma! non ne trovereste un altro come me.

Beatrice. Ho un figlio grande, e senza impiego; siamo avvezzi a vivere con tante comodità. Morto voi, m’aspetto che Florindo ci cacci villanamente fuori di casa, ci prenda tutto, e in premio d’avervi servito, d’avervi amato, d’avervi fatto vivere tanti anni di più, vedermi strapazzata, vilipesa, scacciata, e in istato forse di dover mendicare il pane.

Ottavio. Non vi ho assegnato seimila scudi di dote?

Beatrice. Sì, mi avete fatto quella carta, ma non è autenticata.

Ottavio. Mi hanno detto che è valida; ma ciò non ostante, per compiacervi, la farò autenticare. Ricordatemelo domani. La tengo apposta nel mio scrittoio.

Beatrice. E poi a che servono seimila scudi? Se io restassi vedova con quel figliuolo, come viveremmo con un capitale di seimila scudi? Eh signor Ottavio, prevedo le mie disgrazie, prevedo di dover piangere per troppa mia dabbenaggine. (piange)

Ottavio. Via, cara, non piangete; ci penso, vi provvederò.

Beatrice. Eh sì: lo dite, ma non lo fate. Il tempo passa, ogni giorno passa un giorno, e se aspettate l’ultima malattia, avrete altro in capo che pensare alla povera moglie, al povero Lelio, che non ha altro padre che voi.