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LA SERVA AMOROSA | 219 |
Pantalone. Mi gh’ho una putta da maridar, e i pari che gh’ha giudizio, co i resta vedoi e che i gh’ha dei fioi, no i se ha da tornar a maridar.
SCENA II.
Beatrice e detti.
Beatrice. Eh, che non c’è bisogno d’ambasciata. (verso la porta)
Pantalone. Servitor umilissimo.
Beatrice. Serva sua. Oh guardate! Quel caro staffiere non voleva che io venissi, senza avvisarvi. (ad Ottavio)
Pantalone. El xe sta elo che ghe l’ha dito... (a Beatrice)
Ottavio. Ah? Non è egli vero1? Non ho io detto al servitore, se vien la padrona, lanciala venire? (a Pantalone)
Pantalone. Sior sì, quel che la vol. (El gh’ha una paura de so muggier, ch’el trema.) (da sè)
Beatrice. Il signor Pantalone è venuto a favorirci. Vuole restar servito della cioccolata?
Pantalone. Grazie in verità. Cioccolata no ghe ne bevo. Vago all’antiga. Ogni mattina bevo la mia garba.2
Beatrice. E il mio signor Ottavio prende la sua zuppa ogni mattina nel brodo grasso, con un torlo d’uovo, e si beve il suo vino di Cipro. Mi preme conservarmelo il mio vecchietto.
Ottavio. Oh cara signora Beatrice, che siate benedetta! Signor Pantalone, maritatevi.
Pantalone. Se fusse seguro de trovar una bona muggier come siora Beatrice, fursi, fursi anca lo faria.
Beatrice. Oh signor Pantalone, mi fa troppo onore.
Ottavio. Ah! Che dite? Che ve ne pare? Sarebbe degna d’un giovinetto? E pure la signora Beatrice è di me contenta: non è egli vero3? (a Beatrice)