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fare atto di aperta ribellione contro il feudatario che pretenderebbe «infeudare» anche le «donne nel Marchesato» (II, sc. 19), e lo minacciano, lo bastonano, gli preparano terribili castighi. Quel Cecco, accompagnato dal suo schioppetto che non ispiana mai invano, è personaggio storico degno di nota. Il feudalismo apparisce profondamente mutato in seno alla Repubblica Veneta. — Male a proposito il Rabany (C. G. cit., 145) volle ricordare lo spirito di vendetta dei Corsi; più giustamente il Falchi (Intendi sociali di C. G. cit., 125-9) lodò nel Feudatario l’audacia, ma esagerò nello scorgervi «una espressione di sentimenti politico-sociali organica e di significato ben chiaro». Temperato invece il Molmenti (I banditi della Rep. Ven., Firenze 1898, pp. 349-50).

Peccato che il Goldoni non abbia saputo infondere il soffio della creazione in questa misera fra le sue commedie: peccato che la novità dei caratteri rimanga perciò inefficace. Nemmeno così riescono naturali sul teatro gli abitanti della campagna. Meglio ci piace l’allegra schiera femminile, Olivetta, Giannina, la Ghitta, piene di vanità, di civetteria, d’invidia, come le cittadine. Pantalone poi ed Arlecchino sembrano qui a disagio; inverosimili e insulse Beatrice e Rosaura; Florindo infine ripete malamente qualche tratto del paroncin goldoniano. Quanto alla tesi legale sulla vendita e sulla eredità del castello, può darsi che il Dottor veneziano attingesse a vecchi ricordi dello studio di Venezia o di Pisa: la soluzione, per mezzo di un bel matrimonio, additò il Dejob (Les femmes dans la comédie etc. Paris 1899, p. 125) in una commedia francese dell’Ottocento, ma è già pure immaginata, se non eseguita, in circostanze simili, in un romanzo dell’ab. Chiari, la Filosofessa italiana (t. III, 1755. parte 9a).

Del resto il Feudatario per certa vivacità e varietà di scena, per la novità dell’azione, per la caricatura dei personaggi a cui non potevano sottrarsi gli attori, incontrò fortuna almeno presso il pubblico più grosso; e non è azzardo il sospettare che la bastonatura del Marchesino vi contribuisse. La commedia fu recitata nel 1754 a Modena (Mod. a C. G., 235) e a Roma nel ’55 (Cametti, Critiche e sat.e teatr.i ecc., 1902, p. 5); trovasi nel repertorio della compagnia Roffi (Rasi, I comici it.i I, 1041) nell’anno 1778-79; nel ’96 e nel ’98 si diede ancora a Venezia (compagnie Perelli e Pellandi: v. Giorn. dei teatri di Ven.): ma bisogna credere che infinite altre volte risalisse nel Settecento sul palcoscenico. A Venezia la ritroviamo anche più tardi, per es. nel 1812, col titolo I Deputati della Comunità di Montefosco (S. Gio. Crisostomo: comp. Borelli) e nel ’22 (ivi: comp. Malcherpa e Velli): nel ’23 diventa quasi irriconoscibile, Arlecchino bidello della comune di Montefosco con la solita cavalcata (S. Benedetto: comp. Velli). Quanto alla strepitosa fortuna in Germania e in Austria, dove fin dal 1754 fu rappresentata a Vienna (vers. di Heubel: v. Maddalena, Lessine e G., 1906, p. 3), basti pensare che per numero di recite superò forse ogni altra del Nostro. Ricordiamo anche la traduzione del Saal (Lipsia, t. VI, 1770) e le due opere comiche di Heimar (1773: Spinelli, Bibl.ia gold., 253) e di G. B. Strobl (Monaco, 1783 e 1787: dallo schedario inedito di Edg. Maddalena). Anche in Italia diede origine a tre drammi giocosi (Musatti, Drammi musicali di G. ecc., 1878, p. 9), fra i quali più famoso quello delle Gelosie villane (1776) del comico Tommaso Grandi, con musica del Sarti.