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del ’43 accomodarsi bonariamente e trovar più di un ristoro alla mala fortuna: basta leggere la prefazione della presente commedia e ricordare le Memorie. Mentre a Imola e a Rimini e a Pesaro le popolazioni gemevano sotto il duro giogo, e i poeti del gruppo bolognese (lo Zampieri e il Chiari stesso, ancora oscuro) maledicevano gli invasori in versi latini e italiani, il Dottore nostro pasceva l’umor gaio in una specie di idillio prima cogli Spagnoli, poi coi Tedeschi.
Nella commedia ci sfilano davanti soldati e caporali, un sergente, un alfiere, un tenente, un capitano, perfino il generale in capo. Don Alonso, l’amante militare, si accosta forse all’ideale goldoniano del soldato, ma in realtà riesce del tutto romanzesco. D’altra natura pare che fosse la galanteria degli alunni di Marte. «Nella dimora del Bolognese fatta dall’esercito Spagnuolo, non si sa se per amore o per forza, que’ soldati ingravidarono milla e più donne» racconta un cronista veneziano del tempo (G. Zanetti, in data 7 agosto ’43), e correva per Venezia un sonetto satirico. Siamo costretti a credere molto più vicino alla verità, com’è anche all’arte, don Garzia, il volgare dongiovanni della commedia: vedasi la scena con Beatrice, ultima del primo atto. Ben diverse del resto le due donne: Rosaura, quantunque infantocciata ancora, come sul teatro a soggetto, rivela qualche indizio d’amore nel suo cuore di fanciulla; all’incontro la vedova si consolerà con altre facili avventure. «Povera gonza!» le dice l’arguta Corallina, «se tu volevi che don Garzia ti comprasse, dovevi tenere la marcanzia in miglior credito». (III, 18) E il personaggio più vivo, l’unico forse qui dentro, è appunto Corallina (la servetta Marliani): il suo amabile scetticismo sul valore dei soldati, i suoi scherzi sull’esercito che ritorna senza essersi battuto, sembrano, come fu ben osservato (Brognoligo e Lazzari), le voci del popolo italiano che si vendica a suo modo dell’invasione straniera. In quelle prime scene dell’atto terzo calore e moto non mancano: si sente il tamburo e il passo delle truppe in marcia, si vede la bandiera che saluta Rosaura alla finestra. Ma il resto è teatralità fredda (il supplizio di Arlecchino fa venire in mente il Chiari), o ricordo storico per noi.
Di recente scrisse A. Lazzari con esagerazione, si capisce: «L’Am. mil. è dunque una commedia d’ambiente studiata dal vero, a cui potrebbe servire di commento storico la cronaca riminese di Ubaldo Marchi». (C. G. in Romagna, Ven., 1908, estr. dall’Ateneo Ven., p. 69). Anche degli avvenimenti posteriori a Rimini vien voglia di trovar qualche eco: la ritirata degli Spagnoli nel regno di Napoli, le moltissime diserzioni (v. Mercurio stor. e polit. per il mese d’apr. 1744; Pesaro, Gavelli), e infine il sollievo delle popolazioni nostre per la pace del ’48 (si leggano le ultime pagine degli Annali del Muratori); poichè a noi posteri è lecito di veder cose non pensate forse mai dall’autore. Certo quel povero Arlecchino ingaggiato per inganno e trattenuto con le bastonate (I, 13 e 14), ci resta a esempio di tanti infelici italiani, trascinati nelle milizie forestiere da abili mercanti di carne umana, e il Goldoni, console di Genova, ricordava benissimo le severe pene della Repubblica veneziana contro gli ingaggiatori. Il buon Pantalone, cui tocca alloggiare in sua casa il tenente don Garzia (II, 2 e 3), ci presenta il quadro doloroso d’Italia nel periodo delle invasioni.
In un intermezzo goldoniano, il Quartiere fortunato, che ha con questa commedia la più stretta parentela, come il virgulto con la pianta, ma che biso-