Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1910, IX.djvu/68

58 ATTO SECONDO

Faccenda. Vada a casa per sentire che cosa dice.

Pancrazio. Ma se a Rialto m’attendono: i creditori sono lì colle lettere nelle mani. I miei nemici stanno con tanto d’occhi. I giovani avranno detto che vado, e se non mi vedono, diranno che son fallito.

Faccenda. Caro signore, non può essergli sopraggiunto qualche affare, che gl’impedisca il poter portarsi là?

Pancrazio. Bisognerebbe avvisarli.

Faccenda. Anderò io, ritroverò un pretesto.

Pancrazio. Eh Faccenda mio, questo nostro mestiere è delicato assai. Quello che ci tiene in piedi, è la fede, il credito, l’opinione. Tanti e tanti hanno più debiti di me, e tutti loro credono, perchè la fortuna li aiuta, e si mantengono a forza di apparenza1. Ma quando un uomo principia a dar indietro, quando principia a mancar di credito, tutti gli sono addosso, tutti cercano di rovinarlo, tutti attendono di godere la bella scena; e sapete perchè? Per invidia del bene degli altri, e per amor del proprio interesse. Perchè la torta si divida fra di loro, e il precipizio di un pover’uomo accresca i loro utili, moltiplichi loro le corrispondenze, e dia fomento e pascolo alla loro maladetta ambizione.

Faccenda. Signor padrone, ora non è tempo nè di perdersi di animo, nè di formare riflessi sulle vicende del mondo. Vada a sentire che cosa dice monsieur Rainmere.

Pancrazio. Che ti pare, caro Faccenda? Che cosa ti ha detto? Come ha parlato l’Olandese?

Faccenda. Mi pare un poco turbato, ma non sarà niente.

Pancrazio. Hai veduto mio figlio?

Faccenda. Signor no, non l’ho veduto.

Pancrazio. Va a Rialto.

Faccenda. E che cosa dirò?

Pancrazio. Che mi attendano... Ma poi se non potessi venire?

Faccenda. È meglio che per questa mattina li licenzi.

  1. Pap.: a forza di gabbare coll’apparenza.