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350 | ATTO SECONDO |
Rosaura. Tu ci sarai stato dentro più volte.
Arlecchino. Sigura. Ghe vago squasi ogni dì.
Rosaura. Vorrei entrare ancor io.
Arlecchino. Oh, siora no; donne femene no ghe ne va.
Rosaura. È notte; non si sente nessuno. Possiamo entrare con libertà; e poi sappi che vi è mia madre, e vi posso andare ancor io.
Arlecchino. Se batto, i vien a avrir, i me vede con una donna, e i me regala de bastonade.
Rosaura. Senti. Ho le chiavi.
Arlecchino. Avi le chiave? Chi ve l’ha dade?
Rosaura. Me le ha date mio padre: eccole. Apriremo da noi, senza che nessuno se ne accorga.1 Vi è niente colà da nascondersi?
Arlecchino. Gh’è un camerin... ma... no l’è mo a proposito.
Rosaura. Presto, presto, andiamo.
Arlecchino. Corpo del diavolo... no vorria...
Rosaura. Tieni le chiavi; apri.
Arlecchino. Basta. Avro, e me la sbigno2. (mette le chiavi nell’uscio)
Florindo. Lascia a me queste chiavi. (le prende)
Arlecchino. La se comoda, che l’è padron.
Rosaura. Come! Così mantenete la vostra parola? Mi promettete di non venire, e poi venite al casino?
Florindo. Ah ingrata! Così voi mi serbate la fede? Mi carpite le chiavi, mi giurate di custodirle, e le impiegate in tal uso?
Rosaura. Vi ho promesso, che escite non sarebbero dalle mie mani.
Florindo. Promesse accorte, con animo d’ingannare. Ma chi non sa che sia fede, non merita che a lui si serbi. Giacchè voi mi avete insegnato ad operare a capriccio, mi valerò de vostri barbari documenti; ed ora sugli occhi vostri anderò in quel luogo medesimo, dove non volevate ch’io andassi.
Rosaura. Ah no, caro Florindo...