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l’avrebbe a voi tutta questa nostra povera casa afflitta e disordinata per sua cagione.
Madamigella. Non è egli in casa?
Beatrice. Sì; è in casa da un’ora in qua; passeggia solo, è turbato, e qualche volta sospira.
Madamigella. (Chi sa che io a quest’ora non abbia fatta qualche impressione nel di lui animo?) Amica, con qualche pretesto mandatelo qui da me. Ora che non è in casa mio zio, posso prendermi qualche poco di libertà.
Beatrice. Procurerò di mandarlo. Ma ditemi, madamigella, vostro zio vuol egli ammogliarsi?
Madamigella. Credo che lo farà, quando io sarò collocata.
Beatrice. Una volta pareva ch’egli avesse della bontà per me.
Madamigella. Sì, è vero: ha della stima di voi.
Beatrice. Basta... Non dico altro.
Madamigella. V’intendo; e credetemi che anche per questa parte vi sarò amica.
Beatrice. Ora vi mando subito mio fratello. (con allegria)
Madamigella. Fatelo con buona grazia.
Beatrice. (Oh, monsieur Rainmur sarebbe per me la bella fortuna), (da sè, via)
Madamigella. Eppur è vero. Lo provo io medesima. Amore è un non so che superiore al nostro intelletto, e vincitor delle nostre forze. Per quanta resistenza voglia fare ad una passione ridicola, che mi trasporta ad amare uno che non lo merita, son forzata ad arrendermi e ad assoggettare la mia ragione ad un piacer pernizioso. Che forza è questa? D’attrazione? Di simpatia? O di destino? Qual filosofo me la saprebbe spiegare? Ma la dottrina è inutile, dove l’affetto convince. Io l’amo, e tanto basta. Il conoscerlo indegno d’amore non opra ch’io l’abbandoni, ma che lo desideri degno d’essere amato. Al desiderio unir voglio l’opera mia, e se mi riesce cambiargli il cuore, potrò dir con ragione che il di lui cuore sia mio, e andrò gloriosa di una tale conquista, più di quello farei se cento cuori docili per natura mi si volessero assoggettare. Eccolo il mio