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Guglielmo. Certo. D. Aurora ha tolto le mie, ha tolto quelle che aveva so mario, e la se le ha portade via in anima e in corpo.

Livia. Ah donna vile! Sappiate che le venti doppie sono state da me mandate per voi.

Guglielmo. Da ela? per mi?

Livia. Sì, per voi.

Guglielmo. No so cossa dir. Sempre più se accresce verso de ela le mie obligazion.

Livia. D. Aurora mi sentirà. Vuò che si sappia la mala azione ch’ella mi ha fatto.

Guglielmo. No, cara ela, la supplico per carità. Se la gh’ha qualche bontà per mi, la dissimula, la sopporta, e no la pregiudica al decoro, alla reputazion d’una donna che m’ha fatto del ben.

Livia. Siete un uomo assai grato.

Guglielmo. La gratitudine xe un capital delle persone onorate.

Livia. (Ah, che sempre più m’innamora!) Cosa risolvete di fare?

Guglielmo. No so gnanca mi.

Livia. Caro signor Guglielmo, se casa mia vi aggrada, io ve ne faccio padrone.

Guglielmo. Signora, la so esibizion me consola, ma un giusto riguardo me stimola a no doverla accettar.

Livia. Per qual ragione?

Guglielmo. Ela xe sola, mi son un zovene forestier; con che titolo voravela che stasse in casa?

Livia. Se vi degnate, voi avrete la bontà di assistere agli affari della mia casa, e di rispondere a qualche lettera di rimarco.

Guglielmo. La dise se me degno? Una signora della so sorte rende onor, rende fregio a chi ha la fortuna de poderla servir.

Livia. Non già a titolo di mercede, che ai pari vostri non si offerisce, ma per atto di mia gratitudine, avrete oltre il trattamento un piccolo assegnamento di trenta ducati al mese.

Guglielmo. Eh, me maraveggio! La ricompensa che vôi da ela, ha da esser l’onor della so bona grazia, el compatimento ai mi difetti, qualche occhiada benigna che me distingua dai altri