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Livia. No, trattenetevi. Questi è uno de’ miei pretensori, ma non gli abbado. Egli è un ipocondriaco collerico; non lo sposerei, se mi facesse regina.

Aurora. (Quanta superbia per un poco di denari).

SCENA XI.

Conte di Brano e detti.

Conte. Servo di D. Livia. (li due s’alzano)

Livia. Serva, signor Conte, accomodatevi, sedete. Sedete, (alli due)

Conte. Voi siete in buona conversazione.

Livia. Quel signor forastiere è venuto con D. Aurora ad onorarmi.

Guglielmo. Servitor obligatissimo.

Conte. Servitor suo... Mi pare, se non m’inganno, avervi altre volte veduto.

Guglielmo. Pol esser che anca mi abbia avudo l’onor de vederla ela.

Conte. Non avete nome Guglielmo?

Guglielmo. Per servirla.

Conte. Dunque siete voi il signor dottore, che esercitava in Gaeta la medicina.

Livia. (Un medico?)

Aurora. (È un dottore?) Sì, sì, me l’ha detto che ha fatto il medico.

Livia. (Se è medico, puol esser nobile).

Guglielmo. Ghe dirò, è vero; a Gaeta ho esercità la medicina; ma mi, per dirghela, no son medico de profession. Mio pare giera medico, ho imparà qualcossa da elo, qualcossa ho imparà a forza de lezer e de sentir a parlar. Ho zirà el mondo, e ho acquistà dei boni segreti. Partio da Napoli per causa de una disgrazia, me son retirà a Gaeta, e no savendo come far a campar, me son introdotto in t’una specieria, me son inteso con el spicier, son passà per medico; ho ricettà, ho curà, ho varìo, ho fatto cure strepitose. Ho magnà ben, e ho messo da banda dei bezzi. Finalmente, per curiosità da saver cosa giera suc-