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Guglielmo. Diese doppie.

Aurora. (Oh maledetto!)

Livia. Dieci doppie e non altro?

Guglielmo. Ghe par poco? Una doppia da quattro, e tre da do doppie.

Livia. Dieci doppie sole? Perchè non dargliene venti? (ad Aurora)

Guglielmo. Oh, saria stà troppo.

Aurora. Vi dirò, gliene avrei date anche venti, ma siccome, egli è un giovine generoso, potrebbe spenderle con troppa facilità; perciò dieci gliene ho date ora, e dieci gliene darò un’altra volta.

Livia. (D. Aurora vuol far troppo da economa).

Guglielmo. Per mi xe troppe anca queste, e no le merito, e no le voleva.

Livia. E così, signor Guglielmo, come vi piace la nostra città?

Guglielmo. La me piase assaissimo, ma tanto no me piaze la città, quanto i bei mobili che ghe xe dentro.

Livia. E dove sono questi bei mobili?

Guglielmo. I mobili più preziosi de sto paese i xe in sta camera.

Livia. Queste tapezzerie non sono sì rare, che possano attraere le vostre ammirazioni.

Guglielmo. Eh, altro che tapezzerie. Quel che adorna sta camera e sta città, xe do bei occhi, una bella bocca, un bel viso, un tratto nobile, una grazia che innamora, che incanta.

Aurora. Oh via, signor Guglielmo, non principiate a burlare, qui non vi sono le belle cose che dite.

Livia. (Sta a vedere, ch’ella crede s’intenda parlar di lei). Basta, comunque sia il paese, vi restereste voi volontieri?

Guglielmo. Perchè no? Ghe staria volentierissima.

Aurora. La mia casa sarà sempre a vostra disposizione.

Livia. (E non ha da mangiare per lei). Sarebbe bene, se voleste rimanere in Palermo, che aveste un impiego.

Guglielmo. Allora ghe starave più volentiera.

Aurora. Dite, amica, che impiego credereste voi adattato per il signor Guglielmo?