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L'AVVENTURIERE ONORATO | 267 |
SCENA XX.
Il Messo del Vicerè, poi donna Livia e detti.
Messo. Eccellenza, è qui la signora donna Livia, che desidera udienza. (al Vicerè)
Vicerè. Venga, che viene a tempo. (il messo parte)
Guglielmo. Pare proprio uno di quegli accidenti ad uso di commedia, in cui si fanno venir le persone quando abbisognano.
Livia. Eccellenza, vi supplico di perdono, se vengo ad incomodarvi. Io sono una vedova, che vale a dire una donna libera, che può dispor di se stessa. La fortuna mi ha beneficato con una eredità doviziosa; e questa mia ricca dote eccita in molti la cupidigia, più che l’amore. Ci sono di quelli che pretendono avermi o coll’autorità, o colla soverchieria: e qui davanti all’E. V. vedo tre rivali, tre amanti, non di me, ma della mia eredità. Chi mi ha questa lasciata, non mi vincola a verun partito, posso io soddisfarmi; intendo di farlo, e imploro la vostra autorità per poterlo fare. Amo il signor Guglielmo e lo desidero per consorte. Vi scuotete? Fremete? Egli lo merita, perchè civilmente è nato; egli lo merita, perchè onestamente sa vivere. La sua nascita si prova con questi fogli; la di lui onestà è ormai a tutti palese. Onde s’ei non mi sdegna, se il Vicerè non contrasta, se posso dispor di me stessa, qui alla presenza di chi comanda e di chi invano d’impedirlo procura, a lui offerisco la mano, il cuore e tutto quel bene che mi concede la mia fortuna. (li tre pretendenti si vedono fremere)
Vicerè. Io non intendo di oppormi. Siete arbitra di voi stessa. Che dite, signor Guglielmo?
Guglielmo. Dirò ch’io rimango sorpreso, come una signora di tanto merito si compiaccia di onorarmi a tal segno. Conosco ch’io non son degno di una sì gran fortuna, e infatti accettarla non posso a causa dell’impegno mio colla giovane Napoletana. Questa non ha voluto mettermi in libertà, ed io non deggio tradirla; se Eleonora non me l’accorda, non vi sarà