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256 | ATTO TERZO |
SCENA VI.
Il Vicerè, poi il Conte Portici.
Vicerè. Ha dello spirito, ha del talento, e le sue massime esser non possono migliori. Per quel ch’io scorgo, viene perseguitato più per invidia che per giustizia. Il Conte è un amante di donna Livia, non lo credo sincero.
Conte. Permette, Eccellenza? (accostandosi con rispetto)
Vicerè. Oh! Conte, credo che a voi questa città avrà una grande obbligazione.
Conte. Per qual ragione, signore?
Vicerè. Voi mi avete scoperto esservi quel forestiere...
Conte. E poi la cosa come diceva io? È un impostore? Un gabbamondo?
Vicerè. Egli è uno, il quale darà una memoria che tende all’utile pubblico, al comodo privato e al buon ordine della città. Si andrà fra poco a sviluppare il progetto, per il quale avrà il signor Guglielmo il premio che gli si conviene, e voi sarete ringraziato, per aver promosso la sua fortuna ed un pubblico benefizio. (parte)
SCENA VII.
Il Conte Portici solo.
Il Vicerè si burla de’ fatti miei. Quell’ardito parabolano alzato avrà l’ingegno per insinuarsi nell’animo suo, ed ei, credendogli, mi deride. Sarò io menzognero creduto? L’onor mio vuole che mi giustifichi, e ch’io sostenga e provi quanto di colui ho proposto. Troverò il marchese d’Osimo, troverò il conte di Brano; essi che conoscono Guglielmo assai più di me, verranno meco dal Vicerè, e sosterranno essere colui un impostore, un briccone, (parte)