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254 ATTO TERZO


qualche poco di soldo, passai a Napoli. Colà un certo Agapito Astolfi mi tirò seco in società mercantile, e si piantò un negozio colla ragione in mio nome. Parea che le cose camminassero prosperamente, quando il compagno mio, il quale teneva presso di sè la cassa, fatta una segreta vendita de’ capitali migliori, levato il soldo, fuggì di Napoli e mi lasciò miserabile, e quel ch’è peggio, esposto col nome e colla persona ai creditori della ragione. Questo è il motivo per cui mi sono refugiato in Palermo, celando il casato, per non essere così presto riconosciuto. Il traditore è inseguito; attendo la nuova del di lui arresto, e disperando di poter nulla ricuperare, dovrò determinarmi a qualche nuova risoluzione.

Vicerè. (Il suo ragionamento sembra assai naturale). (da sè) Conoscete voi donna Livia?

Guglielmo. La conosco, Eccellenza sì.

Vicerè. Avete seco alcuna amicizia?

Guglielmo. Ella non mi vede di mal occhio.

Vicerè. Anzi sento dire ch’ella abbia dell’inclinazione per voi.

Guglielmo. Volesse il cielo, che ciò fosse la verità.

Vicerè. Che? Ardireste voi di sposaria?

Guglielmo. Eccellenza, mi perdoni, il mio costume è di dire la verità. Se le mie circostanze mi permettessero di sposare una donna ricca, non sarei sì stolido di ricusarla. La mia nascita non mi fa arrossire, e circa le ricchezze, queste le considero un accidente della fortuna. Siccome la sorte ha beneficato donna Livia col mezzo di un’eredità, potrebbe beneficar me ancora col mezzo di un matrimonio.

Vicerè. Per quel ch’io sento, voi avete delle forti speranze rispetto a un tal matrimonio.

Guglielmo. Anzi non ispero nulla, signore. Sono impegnato con una giovane Napoletana. Questa è venuta a ritrovarmi in Palermo; e quantunque sia ella povera, vuole la mia puntualità ch’io la sposi.

Vicerè. Sposereste la povera e lasciereste la ricca?

Guglielmo. Così pensa e così opera chi più delle ricchezze stima