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L'AVVENTURIERE ONORATO | 253 |
SCENA V.
Il Vicerè, poi Guglielmo.
Vicerè. È debito di chi governa tener la città purgata da gente oziosa, da vagabondi e impostori. Eccolo. All’aria non sembra uomo di cattivo carattere; ma sovente l’aspetto inganna. Noi non abbiamo da giudicar dalla faccia, ma da’ costumi, (siede)
Guglielmo. Mi umilio all’Eccellenza Vostra.
Vicerè. Chi siete voi?
Guglielmo. Guglielmo Aretusi. Eccellenza.
Vicerè. Di qual patria?
Guglielmo. Veneziano, per ubbidirla.
Vicerè. Qual è la vostra condizione?
Guglielmo. Nato io sono di genitori onesti e civili. Trasse mio padre l’origine di Lombardia, e trasportata la famiglia in Venezia, si è sempre conservato lo stesso grado, vivendo in parte delle scarse rendite nostre, e in parte col lucro degli onorati impieghi. Non mancarono i miei genitori medesimi di farmi applicare a quegli studi che convenivano alla mia condizione; ed ho anche provato ne’ primi anni miei il favore della fortuna1. Un amore imprudente, un contratto di nozze che poteva essere la mia rovina totale, mi ha fatto aprire gli occhi, e mi ha determinato ad una violenta risoluzione. Abbandonai la patria, troncato ho il corso delle mie speranze; cambiai cielo, e fui per qualche tempo lo scherzo della fortuna, la quale ora alzandomi a qualche grado di felicità, ora cacciandomi al fondo della miseria, ha sempre però in me rispettato la civiltà della nascita e l’onestà de’ costumi, e ad onta di tutte le mie disgrazie, non ho il rimorso d’aver commessa una mal’azione.
Vicerè. (La maniera sua di parlare non mi dispiace). (da sè) Che fate voi in questa città?
Guglielmo. Glielo dirò, Eccellenza, proseguendo a narrarle qualche parte delle mie vicende. Dopo vari accidenti, messo insieme
- ↑ Pap. aggiunge: trovandomi in Venezia mia patria amato ed applaudito non poco.