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252 | ATTO TERZO |
SCENA III.
Camera nel palazzo del Vicerè.
Il Vicerè ed il Conte Portici.
Conte. Signore, a voi che siete il nostro degnissimo Vicerè, che vale a dire quella persona che rappresenta il nostro Sovrano, non parlerei senza fondamento. Non sono io solamente che abbia de’ ragionevoli sospetti contro il forestiere di cui parliamo. Tutti oramai in Palermo lo guardano di mal occhio; tutti lo trattano con riserva, e quasi tutti lo credono un impostore.
Vicerè. L’ho mandato a chiamare; poco può tardar a venire. Scoprirò l’esser suo; s’egli sarà persona sospetta, lo farò partire immediatamente; e se di qualche colpa sarà macchiato, lo tratterò come merita.
Conte. Io credo che egli stia in Palermo facendo la caccia alla dote di donna Livia.
Vicerè. Non è da desiderarsi che un forestiere venga a levare una ricca dote di qui, per trasportarla altrove.
Conte. Quattro mesi ha mangiato alle spalle del povero don Filiberto.
Vicerè. Ha trovato un uomo di buon cuore. Un povero cittadino, che qualche volta si dà aria di cavaliere.
Conte. E quel ch’è più rimarcabile, donna Aurora è incantata dall’arte di quel ciarlone.
Vicerè. Conte, basta così, state certo che, se sarà giusto, lo farò partire.
SCENA IV.
Il Messo e detti.
Messo. Eccellenza, è qui il forestiere che mi ha comandato di ricercare.
Vicerè. Conte, ritiratevi; lasciatemi solo con lui.
Conte. Farò come comandate. (Il Vicerè è risoluto, lo esilierà certamente, ed io avrò nel cuore di donna Livia un rivale di meno). (da sè, e parte)
Vicerè. Passi il forestiere. (al messo che parte)