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250 | ATTO TERZO |
che forse sarà in grado di adoperarli, per darsi a conoscere in un paese ove non sarà ben conosciuto.
Livia. Voi colla vostra venuta avete fatto nello stesso tempo un gran bene e un gran male al vostro Guglielmo.
Eleonora. Del bene che gli posso aver fatto, ho ragione di consolarmi; siccome rattristarmi io deggio, per il male che mi supponete avergli io cagionato.
Livia. Sì, un gran bene sarà per lui l’essere in Palermo riconosciuto: ma un rimarcabile pregiudizio gli reca l’essere con voi impegnato.
Eleonora. Perchè, signora, dite voi questo?
Livia. Perchè, se libero egli fosse, sperar potrebbe le nozze di una femmina, la quale non gli porterebbe in dote niente meno di diecimila scudi d’entrata.
Eleonora. Oh cieli! Guglielmo è in grado di conseguire un tal bene?
Livia. Sì, ve lo assicuro. Quand’egli provi la civiltà dei natali, può dispone di una sì ricca dote.
Eleonora. Ed io sarò quella che gli formerà ostacolo ad una sì estraordinaria fortuna?
Livia. Sino ch’egli è impegnato con voi, non può dispor di se stesso.
Eleonora. Oimè! Come viver potrei senza il mio adorato Gugliemo?
Livia. Ditemi, gentilissima Eleonora, ha egli con voi altro debito, oltre quello della fede promessa?
Eleonora. No certamente. Sono un’onesta fanciulla. E se caduta sono nella debolezza di venir io stessa a rintracciarlo in Palermo, venni scortata da un antico fedel servitore, e trasportata da un eccesso d’amore.
Livia. Voi non vorrete perdere il frutto delle vostre attenzioni.
Eleonora. Perderlo non dovrei certamente.
Livia. Quand’è così, sposate Guglielmo, e sarete due miserabili.
Eleonora. Povero mio cuore! Egli si trova fieramente angustiato.