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gione la Ferretti (Le masch. it. n. comm. dell’a. e nel tea. di Gold. Roma, 1904, p. 73) — più insipido che altrove. Ma quando a Beatrice che per ismanie gelose non sa più che ordini dargli, risponde: Signora sì, e per conto suo aggiunge: Vanne, ferma, digli, senti. Sia maledetto i matti! — prova ch’egli il buon senso l’aveva perso meno degli altri. Le maschere, a buon conto, grazie al loro dialetto, hanno l’aria di gente che vive della nostra vita e sa quel che dice. Ma gli altri! Quanti gridavano la croce addosso al G. per il linguaggio messo in bocca a personaggi non veneziani, dovettero addirittura andar fuori della grazia di Dio al leggere p. e.: che voglio io imperversare coi morti! (I 19), il sonno sempre più mi violenta (II 6), non mi altero di vantaggio (II 7), se [tu] non fossi canuto, ti balzerei ai piedi la testa (II 8), seguite i vostri teneri affetti (II 9), il padre di Lelio ci ha tenuti obbligati a quella portiera (II 14).... Aggiungi il tono enfatico di tutti e la copiosa fiorita d’imagini seicentesche. Stravaganze di forma che ben s’accordano coi casi stravaganti di questa «specie d’Angelica» goldoniana (Petrocchi, C G. e la comm. Discorso. Mil. 1893, p. 122). Tanto che la commedia avrebbe potuto chiamarsi anche I cento e quattro accidenti di Rosaura - senza il ricordo di quel tale epigramma dove accidenti stava in rima con mal di denti (Mem. P. I, cc. XLI-XLIX). Non ha torto il Rabany (C. G. ecc. p. 168) a dire che l’Incognita «semble par son exagèration une parodie du genre romanesque».

Sembra a noi ora. Nella Premessa si l’allusione al Chiari e molto probabilmente al suo Orfano (trilogia) è manifesta. Il rivale è ripagato delle sue offese. Ma ne risulta pure con evidenza che il G. invogliato lui pure del genere, caro al pubblico, si mette a imitarlo e intende non già parodiare il Chiari (la Premessa bastava), ma fargli un po’ la lezione. S’egli stesso nella sua Pamela aveva tratto da un romanzo una commedia, questa volta compone una commedia da cui si potesse derivare un romanzo. Così gli era più agevole costringere i fatti nel breve giro de’ soliti tre atti e non dilagare nelle trilogie, onde l’abate bresciano avea già dato esempio. La Premessa dichiara esplicitamente che il genere era falso e che l’a. non vi era inclinato. L’Incognita fu composta dunque per «mero capriccio». Un vero atto di contrizione è poi nel Complimento di Rosaura (Foffano, Archivio Veneto, 1899): «Ch’el l’ha fatta, el se protesta, Per un so devertimento; Per far veder che se pol Far romanzi, se se vuol. Ma l’ha dito e l’ha zurà No volerghene più far». Eppure il G. non cela la soddisfazione avuta dal felicissimo incontro e dalle critiche assai benevole sentite. Le Mem. p. e. che della Donna di governo, forte e buon lavoro, si sbrigano in una sola linea, dedicano all’Incognita due intere pagine, dove (sia detto per incidenza) il G. riassumendo la favola della commedia conferisce a Florindo la nobiltà, di che nel nostro dramma non v è traccia. Ma guai a giudicare di singole commedie dalla considerazione in cui le ebbe il troppo tenero o troppo severo genitore! Quanti silenzii consigliati forse talvolta anche da motivi degni della nostra indiscreta curiosità; quanti riassunti prolissi di commedie più tediose ancora!

L’Incognita era stata detta da qualcuno addirittura l’opera migliore composta fino allora dall’autore (L. A. a chi legge). Dati i criteri del suo pubblico oscillante ancora tra il vero e il falso, arriviamo a intendere prima la