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L'INCOGNITA | 153 |
SCENA XI.
Ottavio e Lelio.
Lelio. Perdonatemi...
Ottavio. Che pretendete da me?
Lelio. Riverirvi e supplicarvi di non negarmi una grazia.
Ottavio. Vi ho pur fatto dire, che ora non vi poteva ricevere.
Lelio. Ed io, che ho necessità di parlarvi, non ho potuto far a meno di darvi il presente incomodo.
Ottavio. Con i galantuomini non si procede così.
Lelio. Finalmente non parmi avervi fatta una grande ingiuria. Son uomo onesto ancor io, e un finanziere non perde della sua nobiltà ad ascoltarmi. (con qualche alterezza)
Ottavio. Via, che pretendete?
Lelio. In pochi accenti procurerò di sbrigarvi. Io amo Rosaura, e la desidero per mia sposa. Florindo l’ama, e la desidera al pari di me; ma di un tal rivale mi rido, e mi dà l’animo di aver Rosaura, s’ella fosse nel castello d’Armida. Spiacemi per altro avere inteso che voi difendiate la causa del mio rivale, e per la stima che ho di voi, vengo a pregarvi lasciarmi in libertà di poter disputare la sposa, senza mettermi in necessità di perdere il rispetto a chi tentasse di proteggere un mio nemico.
Ottavio. Voi credete con le vostre parole di mettermi in soggezione, ed io vi dico che ai pari vostri non rendo ragione della mia volontà.
Lelio. Signor Ottavio, io ho parlato finora con tutto il rispetto.
Ottavio. Orsù, favorite andarvene da questa casa.
Lelio. Non me n’andrò, se prima voi non mi dite...
Ottavio. Basta così. Ho dei servitori che vi sapranno condurre.
Lelio. I vostri servi non mi spaventeranno più degli sbirri, che ho fatto precipitar da una scala.
Ottavio. (Costui arriva all’eccesso. È capace di tutte le iniquità). (da sè)
Lelio. (Principia a temere). (da sè)