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150 ATTO PRIMO


a poco nel giro di vari anni, e avendomi la Contessa le cose senza ordine e senza pensiero narrate, ella non crede ch’io le abbia sì ben ritenute ed unite, onde sia in grado di formarne un racconto. Se più sapessi, più vi direi. Amo tanto la sincerità, che la preferisco ad ogni riguardo, e considerando esser voi un uomo saggio ed onesto, son certa di meritarmi la vostra protezione, depositando nel vostro cuore un arcano, che ho finora con tanta gelosia custodito.

Ottavio. Ma voi non sapete il nome di vostro padre?

Rosaura. Credetemi, signore, io non so nè il nome di mio padre, nè quello della mia vera patria, e se ho da dire il vero, dubito non essere nemmeno il mio vero nome quello con cui mi sento chiamare.

Ottavio. Per qual motivo siete stata condotta in questa nostra terra?

Rosaura. Mi ci ha condotto il mio benefattore, sei mesi sono.

Ottavio. Lo so, ma per qual causa?

Rosaura. Un improvviso pensiere lo fè risolvere a qui condurmi. Pareva ch’io gli fossi cagione d’alto timore. Pretese nascondermi in questa terra; mi consegnò a Colombina, promise che venuto sarebbe dopo qualche tempo a vedermi. Ma son passati sei mesi e invano l’attendo, e temo o ch’ei sia morto, o qualche sventura lo tenga da me lontano.

Ottavio. E voi in luogo d’attendere il suo ritorno, e senza avere di lui novella, volevate fuggir con Florindo?

Rosaura. Le insidie di Lelio mi obbligavano a farlo. Florindo aveva promesso condurmi poche miglia da qui lontano, in luogo onesto e sicuro.

Ottavio. Fu sempre imprudente la vostra risoluzione.

Rosaura. Attender dovea che Lelio venisse colla violenza a insultarmi? Due mi volevano, uno colla forza, l’altro coll’amore; signore, a chi doveva aderire di questi due?

Ottavio. Brava, brava; vi difendete assai bene.

Mingone. Signore, manda il Governatore a riverirla e dirle che due forestieri dimandono di Rosaura; onde, se si contenta riceverli, li ha mandati da lei.