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L'INCOGNITA 149

Ottavio. Chi è di là?

Mingone. Comandi.

Ottavio. Dite alla padrona che venga qui.

Mingone. Signore, ella non è in casa; è uscita collo sterzo, e credo sia andata dal Governatore. (parte)

Ottavio. Sarà andata anch’essa a pregare per voi. Orsù, sediamo, e parlatemi con libertà.

Rosaura. (Oh Dio! Che mai sarà di Florindo?) (da sè, siede)

Ottavio. Rasserenatevi. Che mai vi rende così turbata?

Rosaura. Compatitemi, per pietà...

Ottavio. Ditemi liberamente; vi ascolterò con amore e vi assisterò con impegno.

Rosaura. Quanto so, ve lo dirò prontamente. Mio padre nacque nobile siciliano; aveva una bella moglie, e questa fu per lui la più fatale disgrazia. Un cavaliere se ne invaghì. Tentò vincere il di lei cuore, ma sempre invano. Acciecato da pazzo amore, provò insultarla; si difese la casta donna; passò l’empio alla violenza; ella con uno stile lo minacciò, ed egli con un pugnale l’uccise. Mio padre, per vendicar la morte della consorte, non potendo farlo colla strage dell’uccisore, fece trafiggere una sua figliuola, e il cavaliere nemico, benchè lontano, fece privar di vita due miei innocenti fratelli. Ecco disfatta l’una e l’altra famiglia; ecco fuggiti ed esiliati li due nemici, confiscati li loro beni, ed io sola rimasta viva, forse perchè in poter della balia, non ebbe agio d’avermi il distruttore del nostro sangue. Il buon Ridolfo, amico del povero mio genitore, mosso a pietà delle mie sventure, non ebbe cuore di abbandonarmi in quella tenera età. Mi accolse amorosamente e seco a Napoli mi condusse, e qual sua figlia mi nutrì, mi educò. Ecco quanto mi fu narrato dei casi miei, non dal prudente vecchio Ridolfo, il quale mi ha negato sempre darmi di me contezza; ma la contessa Eleonora di Castel Rosso, ch’è l’unica persona a cui note sono le mie vicende, non ha potuto di quando in quando negarmi qualche piccola soddisfazione. Ciò che a voi ho narrato in una volta, l’ho appreso a poco