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356 ATTO TERZO


il mio amatissimo oro. Caro, adorato mio scrigno, lasciati rivedere; lascia che mi consoli, che mi ristori, che mi nutrisca col vagheggiarti. Tu sei il mio pane, tu sei il mio vino, tu sei le mie preziose vivande, i miei passatempi, la mia diletta conversazione: vadano pure gli sfaccendati a’ teatri, alle veglie, ai festini; io ballo, quando ti vedo; io godo, quando s’offre ai miei lumi l’ameno spettacolo di quel bell’oro. Oro, vita dell’uomo, oro, consolazione dei miseri, sostegno dei grandi e vera calamita de’ cuori. Ah! che nell’aprirti mi trema il cuore. Temo sempre che qualche mano rapace mi ti abbia scemato. Oimè! son tre giorni ch’io non t’accresco. Povero scrigno! Non pensar già ch’io t’abbia levato l’amore; a te penso, s’io mangio, te sogno, s’io dormo. Tutte le mie cure a te sono dirette. Per accrescerti, o caro scrigno, arrischio il mio denaro al venti per cento, e spero in meno di dieci anni darti un compagno non meno forte, non meno pieno di te. Ah! potess’io viver mill’anni, e potess’io ogni anno accrescere un nuovo scrigno, e in mezzo a mille scrigni, e in mezzo a mille scrigni morire... Morire? Ho da morire? Povero scrigno! Ti ho da lasciare? Ah che sudore! Presto, presto, lasciami riveder quell’oro, consolami, non posso più. (apre lo scrigno) Oh belle monete di Portogallo! Ah come ben coniate! Io mi ricordo avervi guadagnate per tanto grano nascosto in tempo di carestia. Tanti sgraziati allor piangevano, perchè non avevano pane, ed io rideva, che guadagnava le doble portoghesi. Oh belli zecchini! Oh! cari li miei zecchini; tutti traboccanti, e sembrano fatti ora. Questi li ho avuti da quel figlio di famiglia, il quale per cento scudi di capitale, dopo la morte di suo padre, ha venduto per pagarmi una possessione. Oh bella cosa! Cento scudi di capitale in tre anni mi hanno fruttato mille scudi.