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322 ATTO PRIMO

SCENA VIII.

Ottavio solo.

Gran disgrazia è la mia! In casa non ho nessuno che mi consoli. Mia figlia è innamorata, non pensa che a maritarsi, e mi converrà maritarla, e mi converrà strapparmi un pezzo di cuore, e darle in dote una parte di quei denari che mi costano tanti sudori. Povero me! Come potrà mai essere che io ardisca diminuire il mio scrigno per maritare una figlia? Oh! dove sono quei tempi antichi, ne’ quali i padri vendevano le figliuole, e quanto erano più belle, gli sposi1 le pagavano più care. In quest’unico caso potrei chiamarmi felice, e dire che la bellezza di Rosaura fosse una fortuna per me; ma ora è la mia fatale disgrazia. Se non la marito presto, vi saranno de’ guai. E poi mi voglio levare questa spesa dintorno. Tante mode, tanti abiti, non si può durare. Farò uno sforzo, la mariterò. Povero scrigno, ti castrerò, sì, ti castrerò. Oh! avessero fatto così di me, che ora non piangerei per dar la dote alla figlia. Eccola2. Aspetto qualche stoccata al povero mio borsellino.

SCENA IX.

Rosaura e detto.

Rosaura. Signor padre, il cielo vi dia il buon giorno.

Ottavio. Oh! figliuola, i giorni buoni sono per me finiti.

Rosaura. Per qual ragione?

Ottavio. Perchè non si guadagna più un soldo. Ogni giorno si spende, e si va in rovina.

Rosaura. Ma perdonatemi, tutta Bologna vi decanta per uomo ricco.

Ottavio. Io ricco? Io ricco? Il cielo te lo perdoni; il cielo faccia cader la lingua a chi dice male di me.

Rosaura. A dir che siete ricco, non dicono male di voi.

  1. Pap.: che le volevano.
  2. Pap.: Eccola che a me sen viene.