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IL GIUOCATORE | 217 |
favorissa. Me donela veramente i zecchini, che ho messi drente de sta scarpa?
Florindo. Sì. Te li dono.
Arlecchino. Tutti?
Florindo. Tutti.
Arlecchino. Grazie. (Cussì sti zecchini poderò dir che el me li ha donadi, e che no i ho robadi). (da sè, parte)
SCENA IV.
Florindo solo, che passeggia alquanto senza parlare, poi dice.
Ah quel sette, quel sette! Ecco qui, se non era quel sette, avrei questo tavolino pieno d’oro. Ma quello che non ho fatto, lo farò. Se arrivo a vincere diecimila zecchini, non giuoco più. Dieci mila zecchini impiegarli al quattro per cento, fanno una rendita di quattrocento zecchini l’anno. Ma che cosa sono quattrocento zecchini? Ottocento fìlippi; una minuzia. Colla mia fortuna, colla mia buona regola posso vincere altro! Non potrei vincere trentamila zecchini? Centomila zecchini? Sì, facilmente. Mettiamo solamente ch’io vinca un giorno per l’altro cento zecchini il giorno, in un anno sono più di trentasei mila zecchini, ma dei giorni vincerò altro che cento zecchini! Basta; in un anno io mi posso far ricco. Voglio comprar un feudo, voglio acquistarmi un titolo, voglio fabbricar un palazzo magnifico e ammobiliarlo all’ultimo gusto; voglio farmi correr dietro tutte le femmine della città. Giuoco da uomo, conosco il mio quarto d’ora, ed è impossibile che a lungo andare io non vinca.
SCENA V.
Brighella e detto.
Brighella. Illustrissimo.
Florindo. Che c’è, caro Brighella?
Brighella. Una maschera domanda de ela.
Florindo. Una maschera? Vuol giuocare?