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tembre, non contenti ancora, facero arrestare insieme con l’autore tutti gli attori e le attrici del Teatro della Nazione, che soffersero undici mesi di carcere. (Ed. et J. de Goncourt, Hist. de la socièlè franç. pendant la Rèv., Paris, 1854, pp. 332-4; si consultino G. Barini, Pamela reazionaria, in Rivista teatr. it., Nap., 1902 ed E. Masi, Pamela e M.e Angot, in Fanf. d. dom. 17 febbr. 1 884). Anche contro Goldoni salirono grida di reazionario per la sua ingegnosa trovata, ma il glorioso vecchio era morto già dal febbraio, senza pensione.
Una minuta analisi della commedia ci rivelerebbe certe bellezze che nei capolavori del poeta maturo non si ritrovano. Pamela stessa è una così dolce e delicata figura di fanciulla, che nel teatro merita un posto per se; e dev’essere perdonata se due o tre volte parla troppo a lungo, per un difetto acquistato dalla sorella puritana. Quasi sempre i suoi dialoghi scorrono perfetti; le parole sembrano vivere; i suoi pensieri inteneriscono. «Quand’essa in atto di congedarsi dal troppo caro padrone si mette agli occhi il grembiale; ho veduto far il medesimo de’ lor fazzoletti a quanti v’erano uomini di buon cuore meco in teatro» racconta da giovane Luigi Carrer (Vita di C. G., Ven., 1825, III. p. 95). E ciò ottiene l’autore, si badi, senza mescolanza di tragedia, semplicemente, con la sola forza del rimpianto per la persona che parte. La sensibilità sì, come nella Buona moglie, come nel Cavaliere e la dama e in altre, ma tragedia mai: anzi milord Bonfil è un po’ comico fino negli impeti, e comica è quasi sempre madama Jevre, comico il vecchio Longman: caratteri del tutto nuovi e originali nell’opera di Carlo Goldoni. Il cavaliere Ernold aggiunge poi la satira degli imitatori della moda straniera e dei viaggiatori, comune ormai nel Settecento. Il terzo atto della commedia, più noioso per noi, non manca tuttavia di abilità drammatica, e destò sempre ammirazione (v. per es. Dom. Gavi, Della vita di C. G., Milano, 1826, p. 153. Sparse osservazioni, e raffronti con la Pamela di La Chaussèe, si leggono nella citata scelta di Amar Durivier. Il buon bibliotecario è specialmente innamorato di milord Artur e di Jevre).
Con saggezza aveva attinto il Goldoni al romanzo di Richardson, benchè con poco rispetto del colore esotico, in questa sua prima commedia che si svolge fuori d’Italia. I nomi stessi, per non dire il carattere, dei personaggi soffersero modificazioni (p. es. Daure invece di Davers, Andreuve invece di Andrews, Jevre invece di Jervis, come si trova nelle versioni francese e italiana); qualcuno fu poi inventato (Bonfil era il nome a Venezia d’una ricca famiglia israelita). Non già inutile, bensì lungo sarebbe un particolare esame di raffronto degli episodi. Basta la scena della seduzione a cui Pamela sfugge (A. I, sc. 6), vicino a quelle descritte dall’autore inglese, per mostrare la diversità dei due ingegni e dei paesi.
La fortuna della Pamela goldoniana doveva, come si capisce, eccitare la fantasia degli emuli, e innanzi a tutti, dell’ab. Pietro Chiari, il quale infatti nell’autunno del 1753 riusci a far applaudire una romanzesca Pamela maritata, rifusa alcuni anni dopo (1759) in versi martelliani e data alle stampe. Leggeremo più avanti, con titolo uguale, la continuazione più famosa fatta a Roma dal Goldoni medesimo (ree. 1760) e dedicata nella stampa a Voltaire. Nel 1764 uscì a Bologna e a Venezia una Pamela schiava combattuta, in ende-