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e versioni si ebbero in Germania e in Austria negli anni 1757 (Danzica), 1758 (Vienna), 1761 (Francoforte e Lipsia), 1765 (Vienna). 1893 (Lipsia); in Portogallo negli anni 1766 e 1790; in Ispagna nel 1796 (Valenza); in Norvegia circa il 1800; in Grecia nel 1806; in Russia nel 1812; in Boemia nel 1887 ecc. (v. Spinelli, 1. c.; e Maddalena, schedario inedito), in Francia la Pamela fu tra le poche opere di Goldoni più note e più fortunate: la tradusse da prima nel 1759 a Parigi il signor De Bonnel du Vaiguier; poi nel 1793 la ridusse in 5 atti, in versi, Francesco di Neufchàteau; finalmente un’altra versione più fedele stampò nel 1800 Agostino Amar Du Rivier (Les chef-d’oeuvres dram.es de Ch. G. traduits pour la première fois en français avec le texte italien etc, Lyon et Paris, an IX, t. I).
Pamela restò cara al teatro, e vanta fino ai di nostri un numero infinito di recite: si può anzi dire che con la Locandiera e con altre serva quasi termine di paragone all’arte delle maggiori attrici. Ricordiamo fra le interpreti più applaudite, dopo la Medebach, Anna Fiorilli Pellandi, Amalia Vidan Griffoni, Carlotta Marchionni che iniziò con la Pamela, a Firenze, di 17 anni, i suoi trionfi di capocomica, Natalina Andolfati, Isabella Belloni Colomberti, Amalia Bettini, Tina di Lorenzo ecc. (v. Rasi, I Comici italiani). Memorabili, fra le recite, quella di Tina di Lorenzo e Tommaso Salvini (Bonfil) a Firenze nel 1893, per onorare il primo centenario della morte di Goldoni; e quella della compagnia Grammatica a Venezia nel 1907, per il secondo centenario della nascita. A Livorno (6 febbr. 1893) le si aggiunse 1 ornamento di un prologo martellano (v. Dalla Torre, Saggio di una bibl.ia delle op. di C. G, Fir., 1908. n. 885).
Eppure la presente commedia non trova favore presso tutto il pubblico, nè ottenne l’unanime consenso dei critici. Lasciamo da parte il Baretti (Frusta letteraria, 1764, n. 17), a cui non accade mai di lodare nulla. Se piacque assai nel periodo del Romanticismo, via via fino a Ferd. Galanti, che la chiamò «un vero giojello» e «nel suo genere, un capolavoro» (C. G., Padova, 1882, pp. 210-211 ), parve riuscire ingrata quando il naturalismo invase. Così il Molmenti accusò le tirate declamatorie (C. G., Ven., 1880); Vernon Lee il piagnisteo, e la pose in mazzo con la Persiana e la Peruviana (Il Settecento in It., Mil., 1882, II); il Masi non le lasciò posto nella sua Scelta; il Rabany la relegò in appendice, gettandole l’appellativo di dramma sentimentale (C. G., Paris, 896, p. 332); e finalmente il Malamani la giudicò «al di sotto - e quanto! - de I puntigli delle donne» (L’Ateneo Ven. a C. G., 1907, fase. I, p. 39).
E invero per godere e per ammirare la Pamela goldoniana è indispensabile munirsi di quel vivo sentimento storico, più ricco in certi periodi, che ci permette di sopportare senza impazienze le prediche morali e il romanzo. Non si capisce e non si gusta altrimenti gran parte del tesoro artistico trasmessoci dal passato. Tutto nella Pamela conserva l’impronta del tempo, perfino il riconoscimento di Andreuve, a cui erano abituati e ben disposti gli spettatori. Artificio, senza dubbio, ma non vile, nè assurdo. Della sollevazione di Scozia, nel 1715, molti più vecchi si dovevano ricordare: storie e romanzi ne parlavano tuttavia: Roma aveva accolto l’esule cavaliere di S. Giogio, Giacomo III; e ancora l’ultimo degli Stuardi, Carlo Edoardo, nel 1745 con pochi montanari aveva osato minacciar Londra, e fogli recenti narravano le prove